TUTTO CIO' CHE ESISTE EMERGE DAL SUBSTRATO DUALE DELLA REALTA'.
MEDIANTE LA PROGRESSIVA CONCILIAZIONE DELLE OPPOSIZIONI INTERIORI, PERSONIFICATE UNIVERSALMENTE DAI GEMELLI DIVINI, SI ESTENDE L'ORIZZONTE DELLA COSCIENZA.
DALLA TENSIONE MAGNETICA DELLE POLARITA' OPPOSTE NEL MONDO FISICO PRENDE FORMA LA REALTA'.
Immagine: la dea Latona e i gemelli Apollo e Diana, scultura di William Henry Rinehart (1825-1874); marmo; misure 117,2 x 167 x 78,7 cm. Metropolitan Museum, New York“Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l'armonia più bella, e tutto si genera per via di contesa". (Eraclito di Efeso, 535-475 a.C.)
PREMESSA
Gli dèi gemelli sono presenti nelle mitologie delle culture di tutti i tempi e di tutti i continenti, dalle tradizioni tribali a quelle delle grandi civiltà. Qualsiasi forma possa assumere il mito, i gemelli rappresentano fondamentalmente la dualità universale, sia in riferimento agli elementi opposti nel mondo fenomenico (forme esteriori) che a quelli della dimensione spirituale e psicologica (forme interiori); nell'accezione positiva si sviluppano in una tensione creatrice, fungendo da sostegno all'ordine e all'armonia in ogni ambito dell'esistenza. Ma ogni simbolo e ogni emblema possiede anche un valore negativo, perciò i gemelli, come polarità opposte, possono anche assumere un significato divisivo se non armonizzati fra loro, infatti in alcune culture appaiono con un significato negativo, e vengono descritti come spietati rivali. La figura simbolica dei gemelli può essere estesa anche alla dimensione psicologica, come due aspetti diversi del Sè: l'aspetto cosciente e tutti gli elementi inconsci che non sono mai venuti alla luce, conosciuti come "ombra" o "doppelganger". Nel loro valore negativo i gemelli possono essere rappresentazioni della visione dualistica della realtà, ossia divisiva e contraria alla conciliazione degli opposti. Come possiamo ben considerare, ogni simbologia o figura archetipica possiede un doppio significato, positivo e negativo, poichè sottoposta, a sua volta, ad una forza che la dirige verso il bene o verso il male: la forza di volontà, il cui intento può essere costruttivo o distruttivo. Per questo motivo (vedi "L'uomo nudo" dell'antropologo Claude Levi-Strauss) si assiste ad un continuo capovolgimento dei ruoli degli stessi eroi divini: in una versione del mito malevoli verso l'umanità, in un altra benevoli e così via, assecondando lo spirito dell'epoca e le esigenze particolari della comunità in questione; tutti questi capovolgimenti simbolici riguardano culture native distanti poche centinaia di chilometri l'una dall'altra nelle immense regioni del nord-America. Come idealizzazione delle forze opposte, il messaggio dei miti che vedono come protagonisti i gemelli è quello della libertà e del potere sulla realtà che viene acquisito mediante la conciliazione di ogni aspetto contraddittorio fra mente, anima e corpo nella nostra sfera individuale, fra mondo visibile e mondo invisibile, fra coscienza e inconscio, femminile e maschile, permettendo l'emersione degli aspetti ancora non riconosciuti o dei conflitti non superati. Con il sopraggiungere di una profonda consapevolezza, viene superata anche l'opzione del libero arbitrio, perchè la visione della realtà nei suoi aspetti più impenetrabili ad una mente comune è talmente chiara da non permettere (appunto) contraddizioni o conflitti fra le forze opposte (Gemelli). Da ciò deriva il potere conciliativo dei Gemelli presenti in tutte le mitologie, da un continente all'altro, come vedremo. L'inconsapevolezza (intesa come mancata individuazione delle proprie autentiche istanze interiori) e la scissione psicologica, al contrario, creano impotenza, sottomissione alle forze puramente meccaniche e preordinate del cosmo ma, soprattutto, i vuoti che si creano dalla disarmonia fra mente e anima, realtà materiale e realtà spirituale vengono inevitabilmente riempiti e abitati da altre forze, straniere e parassitarie, inculcate da agenti esterni che possono essere fattori culturali, ideologie deleterie, interesse verso soddisfazioni illusorie, dipendenza psicologica da altre persone e molte altre "amenità". Questo discorso riguarda il benessere psicofisico e spirituale dell'essere umano, il raggiungimento della "pienezza" connessa al principio stesso di "umanità", ma la tensione creatrice scaturita dall'azione delle forze opposte coinvolge tutto ciò che esiste, nel regno minerale, vegetale e animale, perchè tutto ciò che ha potuto prendere una forma materiale, si origina dall'armonia dei contrari nella dimensione immateriale dell'universo che "informa", crea e indirizza tutto ciò che esiste al suo destino di vita, morte e rinascita; ciò si manifesta in un processo continuo all'interno delle forme, così come in eventi straordinari della vita e della storia: i Gemelli esprimono questo cammino di progressive separazioni e connessioni attraverso il messaggio narrato dalle mitologie di tutti i popoli del mondo. Se la realtà esteriore è mossa da dinamiche duali simmetriche, dobbiamo altresì concepirle come dualità illusorie aventi come substrato l'unità fondamentale della monade universale, ossia l'intelligenza che attrae a sè e trasforma i valori della coscienza indirizzandoli, appunto, all'universale, oltre la soglia dell'illusione duale. Questo concetto è perfettamente espresso dalla filosofia aristotelica con l'espressione di "motore immobile", ovvero la condizione suprema di pace in cui l'agitazione conflittuale degli opposti si placa aprendo l'accesso ad una dimensione "altra", inconcepibile ad una psiche frammentata. Se Dio attrae a sè tutti gli esseri che sviluppano le proprie facoltà intellettive e spirituali (ossia "coloro che hanno"-Matteo 25:14-30) indirizzandole al bene comune: condivisione, comprensione, empatia, giustizia, ecc..., colui che si appaga dell'ignoranza, che non si dedica all'espansione della propria anima nella sete di conoscenza e nella creatività (cha nasconde il talento sotto terra), permarrà nella sfera del conflitto duale che genera sofferenza ("stridore di denti"), sarà vittima di inganni dovuti alla propria ottusità, proprio perchè non avrà costruito il ponte per giungere "oltre" questa soglia del reale, edificato dalla conoscenza orizzontale (espansiva) e verticale (introspettiva e trascendente).
ASHVIN: I GEMELLI DIVINI DELLA CULTURA VEDICA
L'esempio più antico di gemelli divini che conosciamo è quello degli Ashvin e di Yama e Yami dei testi vedici. I Veda, come ben sappiamo, sono fra i più antichi testi sacri del mondo, opera di popoli indoeuropei vissuti in India nel II millennio a.C., ufficialmente datati intorno al 1.500 a.C., ma possono essere molto più antichi in quanto la tradizione indù li fa risalire al VI millennio a.C. Probabilmente si tratta di conoscenze in origine trasmesse oralmente, fino alla stesura dei testi scritti. Gli Ashvin personificano rispettivamente il giorno e la notte e il cielo e la terra; sono raffigurati come due esseri con corpo umano e testa di cavallo (un centauro al contrario). Una raffigurazione su un sigillo di ceramica risalente a 5000 anni fa, scoperta nel sito di Mohenio-daro (Pakistan, sulle sponde dell'Indo) mostra proprio due cavalli (unicorni) che sporgono dall'albero sacro uno di fronte all'altro, forse un prototipo degli Ashvìn. Yama e sua sorella gemella Yami furono i primi esseri umani e, nella narrazione dei Veda, Yami desiderava unirsi al fratello, affermando che sarebbe stato l'unico modo per poter creare una discendenza. Ma Yama riuscì a resistere conquistando l'immortalità e regnando nei cieli come giudice dei defunti.
Immagine: sigillo di ceramica raffigurante l'Albero della Creazione e i due unicorni gemelli (prototipi degli Ashvin), scoperto negli anni '20 dall'archeologo britannico Mortimer Wheeler presso il sito archeologico di Mohenjo Daro, Pakistan, Valle dell'Indo, risalente al III millennio a.C. Mortimer Wheeler (1890-1976), in una dichiarazione del 1931, affermò: "La pianta sul sigillo è stata identificata come un albero di pipal, che in India è l'albero della Creazione. La disposizione è molto convenzionale e dalla parte inferiore dello stelo spuntano due teste simili a quelle del cosiddetto unicorno". Diverse raffigurazioni dell'albero di pipal sono state scoperte in sigilli e tavolette della civiltà di Harappa.ANTICO EGITTO: NUT E GEB
Fra i gemelli sacri nella mitologia dell'Antico Egitto vi sono la dea del Cielo Nut e il dio della Terra Geb: si noti il capovolgimento rispetto a molte antiche culture che associano il cielo al maschile e la terra al femminile. Anche nella mitologia norrena, peraltro, vi è la "dea" del sole: "Sol" e numerosi esempi di questa inversione si possono trovare nei miti indigeni del Nord America e in altre tradizioni. Dall'unione di Nut e Geb, che un tempo erano uniti in un abbraccio e successivamente vennero divisi, nacquero tutti gli dèi del pantheon egizio.
Immagine: Geb (dio della terra) e Nut (dea del cielo); dipinto ad acquerello di Virginia Brubaker.
CIVILTA' SUMERA: INANNA E UTU
Presso i Sumeri vi è la coppia di gemelli divini Inanna e Utu, figli del dio della luna Nanna (anche qui assitiamo a un'altra inversione rispetto a molte altre tradizioni, in cui la luna è rappresentata al maschile), a sua volta figlio di Enlil. Inanna-Ishtar è la personificazione di Venere: dea dell'amore, ma anche della guerra; Utu-Shamash è il dio del sole, che conduce l'astro attraverso il cielo fino al suo viaggio notturno all'oltretomba, dove svolge il ruolo di giudice supremo affiancato dal dio degli Inferi Nergal e dall'eroe Gilgamesh.
Immagine: statua di terracotta del dio sumero del sole Utu-Shamash; antico periodo babilonese; proveniente dalla città di Ur; datata 2000-1750 a.C. Dimensioni assenti.
MESOPOTAMIA: GILGAMESH E ENKIDU
Nell'Epopea mesopotamica di Gilgamesh (riportata sulle 12 tavolette d'argilla scoperte nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive, datate 1300 a.C., opera dello scriba Sinleqiunnini) abbiamo la coppia di amici Gilgamesh (Re di Uruk) e Enkidu, uniti da grande affetto e formanti una coppia di contrari: Gilgamesh era un semidio, insuperabile nelle sfide e nell'amore, non trovando mai nessuno che potesse reggere il suo confronto, motivo per lui di grande sconforto. Enkidu possedeva, al contrario, un'indole selvaggia, aspra, vivendo a suo agio in mezzo agli animali e fra le montagne, lontano da qualsiasi contatto umano. Nella prima parte del poema i due amici trionfarono sul gigante Humbaba e sul Toro Celeste mandato contro di loro dalla dea Ishtar (ambigua divinità dell'amore e della guerra) come punizione per il rifiuto ricevuto da Gilgamesh ai suoi sensuali approcci. Dopo l'uccisione del Toro Celeste e di Humbaba da parte degli eroi, gli dèi adirati decisero di far morire Enkidu che venne colpito da una misteriosa malattia. Disperato per la scomparsa dell'amico e tormentato dal pensiero della morte, Gilgamesh si mise in viaggio verso i confini della terra per incontrare l'immortale Utanapishtim, sopravvissuto al Diluvio Universale, che viveva in un luogo paradisiaco alla confluenza tra due fiumi, e riuscire a carpire il segreto della sua immortalità, ma costui gli rispose che non sarebbe mai divenuto immortale come lui e gli diede l'incarico di diffondere la storia del Diluvio fra gli umani. Questo episodio ci fa comprendere come il segreto dell'immortalità non risieda nel rimanere cristallizzati per l'eternità nella medesima condizione, ma nell'attraversare di volta in volta il continuo processo di morte e rigenerazione trasmesso dal mito del Diluvio, che può essere visto come un remoto evento che ha coinvolto tutta l'umanità, ma anche come un processo continuo, insito in tutto ciò che esiste, di dissoluzione e rinnovamento, così nei processi biologici come nei sentieri dello sviluppo spirituale; come ogni episodio mitologico, può essere interpretato su diversi livelli. La storia del Diluvio è narrata nell'undicesima tavoletta dell'Epopea di Gilgamesh, in cui il consiglio degli dèi decise di eliminare l'umanità, divenuta troppo chiassosa e molesta per il loro tranquillo riposo. Ma il dio della saggezza e della terra Enki (Ea) istruì il suo devoto Utnapishtim nella costruzione di un'arca perfetta sulla quale egli fece salire la sua famiglia, gli animali e i beni materiali; trascorsi sei giorni l'arca si arenò sul monte Nissur; dopo 7 giorni Utnapishtim, per individuare le terre emerse, liberò prima una colomba, poi una rondine, ma entrambe fecero ritorno all'arca; solo quando alla fine liberò un corvo quest'ultimo non fece ritorno, essendo giunto sulla terra asciutta. Il dio del cielo e del vento Enlil, seppur adirato, offrì infine il dono dell'immortalità ad Utnapishtim e a sua moglie. L'episodio biblico dell'Arca di Noè, sovrapponibile a quello di Utnapishtim, affonda le radici, infatti, nel mito sumero. Terminato il raccondo del Diluvio, Utnapishtim svelò finalmente a Gilgamesh il segreto dell'immmortalità: dovrà rimanere sveglio per sette giorni e sette notti; ma alla fine una pesante cortina scese sugli occhi di Gilgamesh che non potè resistere al sonno della sua coscienza. Trascorsa dunque una settimana in un sonno profondo, al risveglio Gilgamesh si rese conto del proprio fallimento, cadendo in una grande afflizione. Questo episodio ci rivela il segreto dell'immortalità come capacità di conciliare la coscienza di veglia con la dimensione inconscia del sonno, mediante il sogno lucido e la preservazione della memoria di sè; in maniera analoga, dopo la morte fisica, la memoria di sè è d'importanza fondamentale per evitare la dissoluzione nel regno dell'indistinto. Con "memoria", a mio avviso, non s'intende propriamente il ricordo del proprio passato, ma l'"informazione" della propria interiorità secondo principi consolidati e irreversibili connessi ad un livello superiore di esistenza. Ma i segreti di Utnapishtim non finiscono qui: egli svela a Gilgamesh l'esistenza di una pianta miracolosa cresciuta negli abissi marini che, a chi se ne fosse cibato, avrebbe donato l'immortalità; Gilgamesh riuscì ad impossessarsi della pianta, e ne colse una parte per ogni abitante del suo regno di Uruk, ma durante il viaggio di ritorno, approfittandosi di un suo momento di distrazione, un serpente, attratto dal dolce profumo della pianta, gliela sottrasse e la divorò, cambiando pelle subito dopo averla ingerita. Anche in questo caso viene posto l'accento su una delle molte debolezze umane: Gilgamesh si lasciò coinvolgere da futili distrazioni durante il suo percorso, perdendo coscienza riguardo al proprio destino e alle sue istanze più profonde, precipitando di nuovo nella disperazione per la perdita della pianta. Nonostante ciò il suo spirito vitale (il serpente) si nutrì della pianta rigenerandosi, ma sconnesso dalla memoria di Sè. In conclusione, il poema di Gilgamesh inizia con l'arrogante dimostrazione della propria forza da parte del Re di Uruk, indicando con ciò lo spirito adolescenziale ed immaturo del protagonista; in seguito, dopo la perdita dell'amico, Gilgamesh si recò da Utnapishtim per apprendere i segreti dell'immortalità, attanagliato dall'idea della propria morte; ma l'eroe non riuscì a portare a termine nessuna delle missioni indicate da Utnapishtim, perchè non avvicinatosi con cuore puro ai segreti che gli sono stati svelati, ma con superbia spirituale, ragion per cui una nebbia calò di volta in volta sulla sua mente, deviandolo dalla retta via. Alla fine di tutto il racconto Gilgamesh è costretto a riconoscere la propria impotenza, ad accettare i limiti della propria umanità prima di conquistare un'essenza immortale, e qui si presenta il tema fondamentale dell'accetazione, ma anche del necessario "dissolvimento" della propria individualità in vista del raggiungimento di una coscienza espansa ed impersonale, di un'autentica resurrezione. Inoltre, entrambi i protagonisti rappresentano simbolicamente la dualità dello spirito umano: "Gilgamesh" significa "Antenato" o "Principe", dunque può incarnare il principio che ricerca le proprie radici e indica il percorso dell'anima, l'intelligenza primigenia; Enkidu, che significa "Figlio di Enki" (il dio della Terra) può essere unito all'aspetto più sensibile, in simbiosi con la natura e tutti gli esseri viventi, ma destinato al mondo sotterraneo degli Inferi (inteso qui come il Regno dei Morti). Gilgamesh si dispera per la perdita dell'amico Enkidu, non tanto perchè ciò suscita in lui una riflessione sulla propria futura morte, ma perchè non è riuscito mai veramente a conciliare questi due aspetti (eroico-spirituale e umano-istintivo) del suo essere. L'aspetto spirituale e terreno dell'essere, presi ognuno per conto suo, non possono condurre all'immortalità, devono perciò essere conciliati in uno stadio superiore di consapevolezza.
Immagine: Gilgamesh con il leone, periodo neo-assiro, proveniente dalla sala del trono del Palazzo di Sargon II (721-705 a.C.), antica città di Dur Sharrukin, Khorsabad, Assiria (Iraq). Altezza: 5 metri e 52 cm. Gilgamesh è raffigurato mentre doma il leone. (Museo del Louvre, Parigi).
Immagine: bassorilievo con Gilgamesh e Enkidu che sconfiggono il gigante Humbaba; basalto; X secolo a.C.; periodo neo-hittita. Misure: 63 x 42 x 16 cm. Il bassorilievo decorava una delle facciate del palazzo del sovrano Kapara.
MITOLOGIA NORRENA: FREYJA E FREYR
Nella mitologia norrena Freyja e Freyr erano gemelli, figli del dio del mare, Njord. Erano entrambi dei Vanir (una razza divina responsabile della fertilità e dell'abbondanza) e furono dati agli Aesir come trattati di pace durante la guerra (gli dei Aesir erano solitamente collegati al potere e alla guerra, mentre i Vanir erano associati alla fertilità e alla natura). Freyja era la dea dell'amore, della bellezza e della ricchezza. Si dice che piangesse lacrime d'oro quando il suo compagno Odr intraprendeva lunghi viaggi. Il suo gemello Frey era il dio della regalità, della guerra, della virilità, ma anche della pace e della prosperità, del cielo sereno e del raccolto abbondante.
Immagine: Freya e Freyr, illustrazione di Richard Pace (Toronto, classe 1968)
SACRA BIBBIA: GIACOBBE ED ESAU'
Nella Bibbia abbiamo i gemelli Giacobbe ed Esaù, figli di Isacco e Rebecca. Giacobbe si dedicava alla pastorizia, mentre Esaù alla caccia; Esaù si concentrava di più sulle cose mondane e il suo corpo era ricoperto di peli irsuti; Giacobbe, invece, era un uomo mite, che si distingueva per integrità e semplicità. Nonostante fossero gemelli, Esaù venne alla luce per primo e dunque a lui spettava il diritto di primogenitura; ma con un inganno Giacobbe sottrasse a lui questo diritto. Un giorno Esaù tornò a casa affamato e vide che il fratello aveva preparato una minestra di lenticchie; chiese di mangiarne anche lui, ma Giacobbe gli disse che, in cambio, avrebbe dovuto cedere il diritto di primogenitura ed Esaù accettò il compromesso, affermando che la fame del momento era più importante perfino della primogenitura. In seguito, aiutato dalla madre Rebecca che lo invitò ad andare da suo padre con un buon cibo, indossando pelli di capretto in modo da sembrare al fratello, Giacobbe riuscì a farsi trasmettere dal padre il diritto di primogenitura. In questo caso Esaù rappresenta la forza del desiderio, dell'inquietudine (che sono positivi), ma anche l'attaccamento alle false soddisfazioni mondane e la concentrazione sulla mera sopravvivenza (vivere di solo pane): infatti accettò di vendere la primogenitura e tutti i suoi privilegi per un piatto di lenticchie, ossia per un futile appagamento momentaneo. Giacobbe, al contrario (e qui si presenta il tema delle polarità) rappresentava l'uomo dotato delle qualità spirituali per il raggiungimento di un superiore livello esistenziale: era introspettivo (prediligeva rimanere a casa mentre il fratello era sempre errante), la sua concentrazione era indirizzata alle cose spirituali e non si curava delle apparenze esteriori, era dotato di grande rettitudine, mentre il fratello era governato dai bassi istinti. Il messaggio di questo episodio biblico è un invito allo sviluppo delle qualità interiori più nobili, all'aspirazione spirituale, alla pienezza, alla lungimiranza e all'autocontrollo, superando le illusioni mondane e i falsi desideri, integrando, appunto, lo spirito di Giacobbe che, ottenendo la primogenitura nell'azione della psiche (quindi agendo prima di istinti, desideri ed emozioni), guiderà la nostra esistenza. Tutte le volte, infatti, che vengono compiute azioni egoistiche o dettate da passioni passeggere, per poi causare in noi rimorso e vergogna, quello è l'effetto della primogenitura dei Esaù: ossia degli istinti e delle illusioni che agiscono al posto dell'intelligenza e della riflessione. A questo punto possiamo collegare la figura di Giacobbe a tutti gli eroi mitologici che hanno compiuto il viaggio agli Inferi ed affrontato, sconfiggendoli con arguzia e intelligenza, le forze del caos come aspetti incontrollati della mente, come Ulisse e i Gemelli Eroi della mitologia maya. In conclusione: l'intelligenza e la guida interiore devono essere poste davanti, arrivare prima delle forze incontrollate e meccaniche della mente.
MITOLOGIA GRECA ED ETRUSCA: CASTORE E POLLUCE - (I DIOSCURI)
Nella mitologia greca ed etrusca abbiamo i gemelli Dioscuri, Castore e Polluce, figli del padre di tutti gli dèi, Zeus e di Leda. Zeus, invaghito della bellissima regina Leda, moglie di Tindaro, Re di Sparta, si trasformò in un cigno, riuscendo in questo modo ad unirsi a lei. Dei due gemelli nati da questa unione (Castore e Polluce) uno, Castore, venne riconosciuto come figlio del marito mortale di Leda(Tindaro), l'altro (Polluce) come figlio del dio. I Dioscuri erano protettori dei naviganti durante i fortunali e connessi alla Costellazione dei Gemelli; Castore era domatore di cavalli; Polluce si dedicava al pugilato. Furono fra gli eroi Argonauti sotto la guida di Giasone nel viaggio verso l'ostile terra della Colchide, corrispondente all'attuale Georgia, per la conquista del Vello d'Oro: un magico manto di pelliccia di ariete dal miracoloso potere di curare ogni ferita e ogni male. I due fratelli erano molto uniti e si distinguevano per la natura mortale di Castore e quella immortale di Polluce. Fra le gesta affrontate dai gemelli vi fu la lotta contro i figli di Afareo per il furto di un gregge in Arcadia. Nel confronto, Castore venne ferito mortalmente, mentre Polluce uccise uno dei nemici. Disperato per la morte del fratello, Polluce pregò il padre Zeus di unirsi al fratello nella stessa sorte. Zeus esaudì il suo desiderio, concedendo ai Gemelli di vivere e morire insieme, condividendo l'immortale Polluce il destino del viaggio agli Inferi del mortale Castore. Ed ecco alla fine i fratelli tramutati nella Costellazione dei Gemelli. Dopo essere stati trasformati in stelle, i gemelli poterono finalmente divenire inseparabili, ossia: Castore come incarnazione della componente fisica e mortale dell'uomo, Polluce come elemento spirituale; e qui si ripresenta il tema della conciliazione degli opposti e dell'armonizzazione psicofisica: la natura individuale e passeggera dell'uomo converge con l'elemento impersonale ed immortale che sostiene la sua esistenza. Questo vale anche per la versione del mito riguardante la condivisione del viaggio agli Inferi che i gemelli compiono insieme: Polluce come elemento immortale (spirituale e superiore) Castore come transitorio (fisico ed emotivo).
MITOLOGIA ROMANA: ROMOLO E REMO
Secondo la leggenda, Romolo, gemello di Remo, fu il mitico fondatore della città di Roma e primo suo Re. I gemelli erano figli di Rea Silvia, una vestale i cui antenati furono Enea (figlio di Anchise, che fuggì dall'incendio di Troia portando il padre sulle spalle) e il dio Marte. Siamo nel XII secolo a.C. Dopo essere fuggito da Troia conquistata dagli Achei, Enea approdò, dopo molto girovagare, nel Lazio, venendo in contatto con le popolazioni autoctone dell'Italia centrale e con il Re Latino (da cui presero il nome le antiche genti dell'Italia centrale) uccidendo in uno scontro il Re dei Rutuli sulla coste del Lazio. Qui Enea sposò la figlia del Re Latino, Lavinia, fondando una città assieme agli altri esuli troiani che portò il nome della moglie: Lavinium (a sud di Roma), la cui esistenza è testimoniata dai ritrovamenti archeologici risalenti al XII secolo a.C. Successivamente il figlio di Enea, Ascanio, fondò la città di Alba Longa, sempre nel Lazio, ancora non identificata. Trascorsero numerose generazioni, fino al regno di Numitore, il cui trono fu usurpato dal fratello più giovane Amulio: un individuo senza scrupoli che non ebbe nemmeno rispetto per l'età vetusta del fratello, anzi, si prodigò affinchè egli non avesse più discendenza maschile mediante numerosi delitti (come narrato in Tito Livio, "Ab Urbe condita libri", I,3.) L'unica figlia di Numitore, Rea Silvia, fu costretta dallo zio a farsi vestale perchè non avesse modo di generare figli. Ma un avvenimento miracoloso accadde a salvare la stirpe dello sfortunato Re: il dio Marte s'innamorò di lei e la possedette; da quell'unione di un dio con una vergine nacquero i gemelli Romolo e Remo. Per aver trasgredito il voto delle vestali, Rea Silvia venne sepolta viva, i gemelli furono depositati in una cesta e a due schiavi fu dato l'ordine di abbandonarli al loro destino nelle acque del fiume Tevere. La cesta, in balia della corrente, alla fine si arenò, ma qui le fonti sono discordanti: per alcune presso una grotta, per altre ai piedi di un albero di fico. Una lupa che stava scendendo dai monti sentì i pianti dei neonati, si avvicinò a loro ed iniziò ad allattarli; a questa si aggiunse un picchio (come narrato in Plutarco: "De fortuna romanorum") che la aiutò portando anche lui del cibo ai bambini. In seguito i gemellini furono trovati da un pastore alle dipendenze del Re usurpatore Amulio, che era stanziato sulle rive del Tevere: il suo nome era Faustolo. I bambini crebbero presso Faustolo e sua moglie, il quale riconobbe in loro la progenie del Re detronizzato; fu lui, infatti, a svelare a Romolo questo segreto. La capanna dei genitori adottivi, Faustolo e sua moglie Acca Larenzia, si trovava sulla sommità del Palatino (uno dei Sette Colli di Roma). Fra i gemelli ebbe inizio un'aspro conflitto, poichè Romolo scelse il colle Palatino per edificare la città chiamandola "Roma"; Remo invece voleva che fosse l'Aventino il colle su cui doveva sorgere con il nome di "Remora". Un giorno, Remo attraversò il sacro confine appena tracciato della città in armi e venne ucciso da Romolo che pronunciò queste parole: "Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura". Fu così che Romolo divenne primo Re di Roma.
Immagini: Lupa Capitolina: scultura in bronzo di incerta datazione (forse V secolo a.C.), di dimensioni naturali, probabilmente di produzione etrusca. Raffigura i gemelli Romolo e Remo allattati dalla lupa. Le statuette dei gemelli sono state aggiunte nel XV secolo e sono opera di Antonio del Pollaiolo (1431-1498).Immagine: purificazione di Enea nel fiume Numicius, olio su tela di Pier Leone Ghezzi (1674-1755). Misure: 96 x 135 cm., datato 1725.
Interpretazione del mito di Romolo e Remo
Le leggenda di Romolo e Remo è narrata principalmente in "Storia di Roma" dello storico latino titio Livio (59 a.C-17 d.C.); si tratta di un'invenzione risalente al IV-III secolo a.C. e il racconto è presente anche nelle opere di Dionigi di Alicarnasso, Varrone, Plutarco. Il più grande poeta romano Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), dal canto suo, narra nell'Eneide le gesta dell'eroe troiano Enea, giunto nella penisola italica dopo la guerra di Troia e l'occupazione degli Achei. Si tratta di racconti tardivi, scritti molti secoli dopo le vicende che descrivono, e in cui si mescolano elementi greci e latini. Le vicende più antiche di Enea relative alla caduta di Troia risalgono al 1193 a.C. circa; quelle della fondazione di Roma da parte di Romolo (discendente di Enea) al 753 a.C. Se molti personaggi e racconti della mitologia poggiano su avvenimenti reali a cui è stata aggiunta una sovrapposizione simbolica per dare loro un significato spirituale ed iniziatico, la leggenda di Romolo e Remo sembra essere una pura invenzione, forse per legittimare il passaggio di consegne dalla civiltà Etrusca i cui sovrani, in effetti, fondarono Roma e ne edficarono templi e strutture. Ma bando alle certezze assolute, che sfumano dove regnò una reciproca compenetrazione fra Etruschi e popolazioni latine stanziate lungo il corso del Tevere. A quanto pare, dalle conoscenze storiche, non esiste nulla di puramente etrusco o puramente latino in tutta questa vicenda. In effetti, dei Sette Re di Roma riportati dalle cronache dell'epoca, solo degli ultimi tre, ovvero dei sovrani etruschi, ci sono le prove storiche che siano veramente esistiti, e furono Tarquinio Prisco (dal 616 al 578 a. C., che costruì il Foro di Roma e il Tempio di Giove Capitolino), Servio Tullio (che costruì l'acquedotto e le mura cittadine) e Tarquinio il Superbo, che fu un Re tiranno e provocò la rivolta dei sudditi fino all'instaurazione della Repubblica. I primi quattro: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio e Anco Marzio, furono probabilmente inseriti come prolungamento del mito di fondazione per collegare le date dal 753 a.C. (anno della fondaziome di Roma secondo il mito) fino ai sovrani etruschi. Sull'origine degli Etruschi nessuno ne è mai venuto a capo in modo evidente. Lo storico Erodoto (484-425 a.C.) ipotizzava una loro origine orientale, dalla Lidia (attuale Turchia) in seguito a carestie. Dionigi di Alicarnasso (60 a.C.-7 a.C.) riteneva che gli Etruschi fossero nativi della penisola italica; Tito Livio elaborò la teoria della provenienza settentrionale. Recenti studi sul DNA pubblicati nel 2004 da un gruppo internazionale di ricercatori ha appurato che gli Etruschi erano una popolazione geneticamente omogenea, e non gruppi eterogenei accomunati da una medesima cultura, ed erano affini alle popolazioni autoctone della penisola, dunque probabilmente anch'essi nativi di queste regioni e non ci sono prove di una presunta origine anatolica. Verso il 753 a.C. (anno in cui viene fatta risalire la sua fondazione) non esisteva nessuna struttura urbana nel luogo dove sarebbe sorta Roma, ma solo una sessantina di centri abitati di pastori e agricoltori latini distribuiti nell'area. Dal canto suo, il Re etrusco Tarquinio Prisco (616 al 578 a. C.) lottò strenuamente proprio contro gli Etruschi, per costringere la galassia di città-stato rivali a riconoscere in Roma il nuovo centro di potere. Ma nel 509 a.C., in seguito a una rivolta popolare, solo il Re Tarquinio il Superbo e i principi furono cacciati da Roma, non tutti gli Etruschi, tantomeno le famiglie nobili e la classe degli eruditi. Dopo l'istituzione della Repubblica, Roma fu per un lungo periodo una città etrusco-latina e le tradizioni religiose etrusche divennero patrimonio comune. Dove possiamo tracciare, dunque, la linea di demarcazione fra Etruschi e Latini, data la vicendevole compenetrazione fra i due popoli? Qui termina questa "breve" e doverosa parentesi storica, che necessiterebbe di un'opera a parte, per riprendere il tema di questo saggio, ossia il significato simbolico ed iniziatico della mitologia.
Immagine: Romolo e Remo assieme alla lupa, vengono scoperti dal Pastore Faustolo, olio su tela di Joseph Binder (1805-1863). Misure: 126 x 103 cm.; datato 1850.Immagine: il pastore Faustolo porta alla moglie i gemelli Romolo e Remo, olio su tela di Pierre Mignard (1606-1668). Misure: 148 x 145 cm., datato 1654. Immagine: Romolo uccide Remo dopo la fondazione di Roma, incisione di Augustyn Mirys (1700-1790).
Romolo e Remo: Simbolismo della lupa
Fra i protagonisti di questo mito la lupa che allattò i gemelli occupa un posto di primo piano. Il simbolismo del lupo, presso le antiche civiltà nordiche e mediterranee, come ogni altro ha sempre rivestito un doppio significato, positivo e negativo, distruttore e costruttore al contempo, tutto dipende dall'aspetto che, in una determinata circostanza, di esso si intende evocare. Nel mito greco la dea LATONA (preolimpica divinità appartenente alla stirpe dei Titani) si trasformò in lupa prima di generare i gemelli complementari APOLLO-ARTEMIDE; il suo nome deriva forse da "lada", che nell'idioma licio indoeuropeo significa "donna". Nella tradizione etrusca il lupo rappresentava il dio degli Inferi, AITA, raffigurato sulla parete di fondo della TOMBA DELL'ORCO di TARQUINIA come una figura antropomorfa con una testa di lupo come copricapo. Presso gli Egizi lo SCIACALLO faceva le veci del lupo ed era connesso al Regno dei Morti e alle necropoli. Nella mitologia nordica FENRIR (o Fenris) era un lupo mostruoso, estremamente feroce, figlio del dio dell'astuzia e degli inganni LOKI e della gigantessa ANGRBOOA, il cui nome significa "presagio del male"; FENRIR simboleggiava le forze del caos tenute a bada dalle leggi cosmiche che sostengono l'esistenza come la conosciamo (impersonate dalle divinità); venne imprigionato dagli dèi nelle viscere della terra con una magica catena che si sarebbe spezzata solo all'avvento del RAGNAROK, la fine del mondo. Questo solo per fare alcuni esempi. Presso le antiche popolazioni italiche, come i LUCANI, lo spirito guerriero era simboleggiato dal lupo; lo stesso vale per le tribù celtiche e germaniche. Per estendere ancor di più il discorso, nelle tradizioni sciamaniche dei NATIVI DEL NORD AMERICA il lupo è animale guida, cosi come presso molti altre comunità tribali, ammirandone l'astuzia e le doti di cacciatore. Per fare un ulteriore esempio possiamo menzionare il nome che HITLER diede al suo quartier generale negli anni '30, ossia "WOLFSSCHANZE": "LA TANA DEL LUPO", con un'accezione ovviamente sinistra. Ma l'analogia più sorprendente con il mito di Romolo e Remo la troviamo nelle antiche cronache cinesi "SHI-JI" e "HAN-SHU"; queste narrano la storia di KUN-MO, sovrano dell'impero nomade dei WU-SUN (sorto in Asia Centrale fra il II e il I secolo a.C.), di come egli fu abbandonato da bambino e nutrito da una lupa e da un corvo (anche in questo caso abbiamo la lupa accompagnata da un uccello, che nel mito romano è un picchio). Il ceppo etnico dei WU-SUN era indoeuropeo e la regione in cui erano stanziati veniva denominata dai Romani "TRANSOXIANA", oggi Turkestan occidentale; vengono descritti dalle cronache cinesi dell'epoca come alti di statura, bianchi, con occhi azzurri e capelli biondi. Può essere possibile che il motivo centrale di una leggenda abbia potuto giungere fino al Lazio visto il largo raggio di influenza dell'Impero Romano, ma dobbiamo tener presente che popolazioni indoeuropee si sono infiltrate nei gruppi tribali della penisola fin dalla preistoria e che, dunque, le tradizioni di entrambe possono essersi sovrapposte nel tempo; i proto-turchi consideravano il lupo come un animale totemico e questo animale rivestiva simbolicamente un ruolo centrale in molte culture indoeuropee. Le antiche popolazioni della penisola italica elessero il lupo come proprio antenato primordiale, come simbolo di fecondità e di forza. Nel racconto di Romolo e Remo la lupa rappresenta l'indole materna e protettiva, mentre il picchio (suo aiutante nell'impresa) incarna le caratteristiche maschili di resistenza e perseveranza: infatti, presso gli antichi popoli italici questo uccello era associato alle caratteristiche del guerriero valoroso. Abbiamo perciò, all'apice del mito, l'interazione fra l'elemento maschile e femminile: l'energia femminile come forza espansiva, inclusiva, mediatrice; l'energia maschile come fattore propulsivo, attivo, difensivo e in questo modo si stabilirono le fondamenta esoteriche del futuro Impero. Anche nel mito WU-SUN la lupa assume una valenza materna e femminile, mentre il simbolismo del corvo nella mitologia indoeuropea è duale: esso impersona sia saggezza e lungimiranza che morte e distruzione (testimoniando di come ogni elemento porti al suo interno un'ulteriore coppia gemellare, come in uno schema frattale, dalla più grande organizzazione fenomenica all'infinitamente piccolo). Nonostante l'accezione distruttiva del simbolismo del lupo posta in evidenza da molti miti, come ogni altro emblema, esso possiede sia un significato negativo che positivo, e secondo i tempi e i luoghi, viene fatto prevalere l'uno o l'altro. Pertanto, il distruttore diviene al contempo la guida che conduce alle soglie del rinnovamento spirituale e della trasmutazione interiore: questo dovrebbe essere il concetto che i suoi ideatori avrebbero voluto trasmettere con questo mito: la stessa forza (simboleggiata dal lupo) agisce nella sfera interiore dell'essere umano così come nel contesto degli eventi storici.
Romolo e Remo - Analisi del mito
Prima di analizzare questo mito dobbiamo sempre ricordare che non lo possiamo interpretare secondo valori assoluti ed imprescindibili dall'epoca in cui è stato creato, nè senza tener conto della mentalità e delle finalità dei suoi stessi narratori. I protagonisti e la storia di questo mito assumono un grande valore simbolico, che comprende l'ambito esteriore della fondazione di una città e, per analogia, rispecchia le più profonde dinamiche di una trasformazione interiore, di un nuovo ordine. I gemelli stessi, innanzitutto, impersonano due polarità contrapposte: Remo incarna l'aspetto più moderato e conciliatore della psiche, Romolo l'aspetto attivo di una volontà più risoluta e solare; la città di Remo, infatti, si sarebbe chiamata Remora, ossia "ostacolo" inteso come freno alle ambizioni di potere. Come discendenti di Enea, Romolo e Remo collegano le origini di Roma alla GUERRA DI TROIA e alla fuga di ENEA dalla città distrutta in cerca di un luogo lontano dove realizzare il sogno di una nuova stirpe, ossia l'Italia. La città di TROIA, in questo caso, assume lo stesso valore simbolico che la terra d'Egitto ha per gli Ebrei nel VECCHIO TESTAMENTO, ossia quello di fortezza dell'orgoglio e delle ricchezze materiali. Romolo e Remo, inoltre, nascono da una vergine, come GESU', come il fanciullo solare MITRA, il saggio cinese LAO-TZE, il dio QUETZACOATL delle civiltà mesoamericane, l'eroe PERSEO e perfino ALESSANDRO MAGNO, che numerose leggende affermano essere stato generato da Zeus stesso, presentatosi a sua madre, OLIMPIA D'EPIRO, sotto forma di serpente. La VERGINE-MADRE è l'archetipo dell'anima indivisa e purificata, introspettiva, pronta per accogliere il fuoco spirituale come mediatore che spinge allo sviluppo e al risveglio interiore; il frutto di questo incontro, che si può visualizzare come il bacio del Principe Azzurro alla Bella Addormentata, è la nascita del FANCIULLO DIVINO, ossia la morte della vecchia personalità e l'accesso ad una nuova dimensione. Lo scopo di ogni mito, prima di essere funzionale a qualche progetto storico, è quello di interagire in profondità nella psiche e nella coscienza umana. Ma, così nella persona come nella storia, all'innalzamento di ogni onda positiva (Romolo) si affianca un pari sviluppo di energie ostacolanti (Remo) e lo schema duale dei gemelli si protrae così all'infinito all'interno di tutto ciò che viene alla luce, seppure rinnovato, in un percorso spiraliforme. Che poi Romolo rappresenti un archetipo di progresso, interiore ed esteriore, può essere accettato dal punto di vista della mentalità delle genti di quell'epoca e di quel contesto, ma non può essere un giudizio assoluto; vedremo in seguito come questo mito in effetti aspiri a tessere le lodi di un vincitore dalla virtù ingannevole, come si dimostrò nello sviluppo ed espansione di una civiltà destinata a creare una linea di demarcazione fra l'indirizzo superiore e sapienziale della civiltà greca ed etrusca e le aspirazioni materialistiche e militariste dell'Impero Romano, anche se non possiamo dimenticare un parallelo sviluppo di ordini iniziatici orientati all'acquisizione di una conoscenza universale come, ad esempio, il culto orientale di Mitra. Date queste premesse, l'eponimo "Remora" che avrebbe dovuto essere assegnato alla città di Remo lo potremmo interpretare come un ostacolo all'abuso della volontà di dominio, una "remora", appunto.
Interpretazione del fratricidio nel mito di Romolo e Remo
Il tema del fratricidio è pressochè universale e compare in molti miti di fondazione delle società umane, da un continente all'altro. Per quel che riguarda l'ANTICO EGITTO il dio SETH (fratello oscuro di OSIRIDE) uccise OSIRIDE (compagno di ISIDE) facendolo a pezzi. Sarà il figlio di ISIDE e OSIRIDE, HORUS, a vendicare la morte del padre destinato a regnare nell'Oltretomba, conquistando infine il trono dell'Egitto dopo un'aspra lotta contro lo zio. SETH, dal canto suo, divenne il dio delle tempeste e del deserto, apportatore di caos e, ciononostante, anch'egli indispensabile nel gioco di equilibri cosmici. Nella mitologia azteca vi è la lotta fra i gemelli NANAHUATZIN e TECCIZTECATL, che alla fine diventarono rispettivamente il sole e la luna. TECCIZTECATL, per paura, non potè affrontare la prova del fuoco, fu così che NANAHUATZIN si gettò fra le fiamme dimostrando tutto il proprio coraggio e permettendo l'esistenza del sole. Come rito espiatorio per il sacrificio di questo dio, gli AZTECHI istituirono la pratica dei sacrifici umani. Nella mitologia giapponese abbiamo la lotta fra la dea del sole AMATERASU e suo fratello SUSANOWO, dio delle tempeste. Nella BIBBIA la contrapposizione ideale fra i due figli di ADAMO ed EVA, CAINO e AABELE, culminò con l'uccisione di ABELE, poichè solo le offerte di quest'ultimo erano gradite a Dio. Ora, il racconto di CAINO e ABELE è quello che più si avvicina al mito di ROMOLO e REMO: in entrambi abbiamo il fratricidio come conseguenza del conflitto fra due forze opposte nell'interiorità umana. C'è una particolarità comune fra i due fratelli fratricidi, CAINO e ROMOLO: sono due figure legate all'idea del possesso, della volontà esclusiva; se CAINO è il fratello "oscuro" di ABELE, ROMOLO non è il fratello "illuminato" di REMO, nel senso che REMO (la cui etimologia, probabilmente etrusca, è sconosciuta) non impersona il caos (come, ad esempio, SETH nel mito egizio), bensì un freno alle ambizioni arroganti di ROMOLO, fondatore di un nuovo ordine distopico, radicalmente diverso da quello della precedente civiltà greca ed etrusca, di stampo aggressivo e militaristico; l'IMPERO ROMANO sta alla CIVILTA' GRECA ed ETRUSCA come SPARTA sta ad ATENE, come gli AZTECHI stanno alla CIVILTA' MAYA classica, senza comunque voler idealizzare troppo le seconde.
"Vero è che una civiltà composta da militari (imperniata sul militarismo) mai riesce a raffigurare le più alte vette dei valori metafisici...I Romani mai riuscirono ad imitare le veneri di Prassitele o i concetti del pensiero greco. Neppure altri popoli fortemente pratici e militari possono sostenere tale paragone e tale confronto: pensiamo agli Assiri i quali vollero sì imitare i Sumeri per mezzo degli Akkadi, ma vi riuscirono solo in potenza e in crudeltà". ("I miti maya e aztechi"; Angelo Morretta, pag.166-167)
Caratteristiche individuali e ordini sociali sono profondamente correlati. Qual'è la radice del militarismo? Nei VEDA, la storia umana è suddivisa in quattro ère denominate "YUGA"; l'ultima di queste ère cicliche è il KALI-YUGA, un periodo di decadenza in cui prevale l'elemento materialista, l'ignoranza spirituale, l'assenza di aspirazioni superiori di conoscenza, bellezza e arte, di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. In sostanza: la deriva militarista consiste nella vendetta del gemello oscuro ed arretrato, ossia nella presa del potere dell'uomo ordinario, meschino ed incline al mero possesso ottenuto con il mezzo della sopraffazione, o fratricidio. Non può esserci civiltà se non esiste freno alle ambizioni e alla sete di dominio e di controllo. Ovviamente, questa tesi è soltanto una delle innumerevoli sfacettature simboliche di questo mito, come di altri miti e dunque dobbiamo tenere presente che corrette possono essere (e lo saranno probabilmente) numerose altre interpretazioni anche opposte, data la complessità che inevitabilmente si irradia attorno ad un nucleo archetipico. Come di consueto, lo schema duale è onnipresente in ogni personaggio e in ogni aspetto del racconto mitologico: così l'elemento positivo non è mai privo di lati oscuri e l'elemento negativo reca in sè i semi del futuro sviluppo, della luce. Sempre ammesso che un seme vi sia se consideriamo quel cono d'ombra della mediocrità umana che, in quanto tale, ha nel possesso materiale l'unico orizzonte, ma è un argomento che esula dal tema di questo saggio. D'altra parte, tutte le civiltà da noi ben conosciute possono essere viste come forme decadenti di una superiore cultura ancestrale, chi più chi meno, e il KALI-YUGA non è iniziato in epoca recente.
RACCONTO BIBLICO DI CAINO E ABELE
Adamo ed Eva, dopo la cacciata dal Paradiso, ebbero due figli: Caino e Abele. Caino era il primogenito e faceva l'agricoltore; Abele era dedito alla pastorizia. Il nome "Caino" ("Qayin" in ebraico) significa "prendere possesso", "possedere" o "acquisire qualcosa". L'etimologia di "Abele" ("Havel") significa "soffio" o "vacuità". Nella tradizione ebraica il nome definisce il carattere e il destino di chi lo porta. Entrambi i fratelli offrono sacrifici a Dio, Caino i prodotti del suo lavoro nei campi, Abele i primogeniti agnelli del suo gregge, ma Dio apprezzava solo le offerte di Abele, rifiutando quelle di Caino. Caino, vedendo che Abele era prediletto da Dio, covò un tale risentimento nei confronti del fratello che un giorno, dopo averlo attirato in mezzo alla campagna, lo uccise. Dio scoprì il delitto chiedendo a Caino: "Dov'è tuo fratello?"; Caino rispose "Sono forse io il custode di mio fratello?". Scoprendo poi il delitto, Dio maledì Caino costringendolo ad andare ramingo per il mondo, allontanandolo dalla terra macchiata dal sangue di suo fratello. Ma il Padre Eterno si preoccupò che egli non subisse vendetta e pose su di lui un segno affinchè nessuno osasse colpirlo. In seguito Caino avrà una sposa e un figlio di nome Enoc; fonderà la prima città della storia che porterà lo stesso nome del figlio.
Interpretazione del racconto biblico di Caino e Abele
Il parallelismo fra il mito di Romolo e Remo e il racconto biblico di Caino e Abele è più che mai evidente. Anche in questo caso, l'ostilità di Caino nei confronti di Abele dev'essere interpretata in primis come un conflitto nell'interiorità dell'uomo, solo in un secondo momento si possono indicare le analogie con la sfera esteriore, sociale e antropologica. In questo modo il mito potrà essere analizzato cercando di fare luce sui suoi significati. Il mestiere di agricoltore di Caino è una metafora dell'alienazione esteriore, dell'attitudine al possesso di beni materiali senza riguardo alla gratuità con cui Dio ha distribuito le ricchezze della terra ma, di conseguenza, l'atto stesso di seminare e dissodare il terreno può essere una metafora della ricerca, di un "andare a fondo" nella comprensione della realtà senza doversi soffermare alla contemplazione estatica e passiva. Quando Caino offre i frutti del suo lavoro, Dio li rifiuta, perchè la sua offerta non è disinteressata: infatti il suo mestiere di agricoltore e possessore di una proprietà lo rende simbolo di separazione, di contrapposizione con la gratuità della natura; Caino è costretto, dal proprio desiderio inesauribile e dalla propria indole indipendente (intesa qui come una presa di coscienza della propria individualità separata dal "tutto") a guadagnarsi da vivere lavorando duramente. Questo violento sentimento di separazione e di insoddisfazione è dato dalla mente razionale, proiettata verso il lato mondano e materiale e segna il primo passo verso l'acquisizione di rappresentazioni di Sè sempre più chiare assieme alla consapevolezza di essere un'entità indipendente, non più "confusa" nella totalità dell'universo. Ciò implica, assieme alla scoperta delle proprie potenzialità, la corrispondente crescita dell'orgoglio e dell'impulso alla ribellione contro un'immobilità primordiale percepita come limitante. Dal canto suo, Abele rappresenta la perfetta unione con il divino e con la natura, data dalla mente intuitiva, l'assenza di bramosia e la vita serena priva di attaccamenti, metaforizzata dal nomadismo ma, rispetto a Caino, impersona una dimensione psichica in cui non si è ancora sviluppata la scintilla del libero arbitrio cosciente, data dal sentimento di separazione dal tutto; infatti il significato del suo stesso nome, "soffio", indica qualcosa di ancora inconsistente che è destinato a non durare, che dev'essere forgiato, messo alla prova. Abele sacrifica i primogeniti del suo gregge a Dio: il primogenito rappresenta ciò che compare prima, che in tal caso è la forma psichica ancora indifferenziata e non separata da Dio, inteso nella sua polarità latente rappresentata dal mondo naturale; il sangue che Abele versa nei suoi sacrifici indica, come il fuoco, la sua energia vitale ma non ancora spirituale, perchè non esperita dal dubbio nell'azione duale della mente. La separazione di Caino e Abele diviene così inevitabile per la realizzazione della consapevolezza e della forma superiore del Sè, e questa separazione avviene figuratamente mediante il fratricidio. Non dobbiamo percepire i due gemelli come due esseri umani distinti, bensì come forze agenti all'interno di un unico individuo che per mettere a frutto le proprie possibilità nascoste deve, in qualche modo, sopprimere l'originaria ingenua purezza per affrontare le sfide sul percorso della propria individuazione, anche se ciò implica l'oscuramento iniziale della mente intuitiva e della comunione con il divino. Detto ciò non dobbiamo considerare l'uno negativo, l'altro positivo: sono entrambi positivi, perchè Caino è inserito nella sfera del divenire, mentre Abele rappresenta quell'inizio che dev'essere riscoperto e riconquistato, ma alla luce della consapevolezza, dopo aver conosciuto il mondo e abbandonato gli impulsi egoici e separativi: questa formula è proposta in altri termini nella storia del figliol prodigo dei Vangeli. Il volto di Caino "divenne come il fuoco" a causa del rifiuto di Dio: quel fuoco indica l'elemento propulsore della volontà e dell'uscita dalla precedente condizione di indeterminazione. Detto ciò, sembra chiaro che l'omicidio compiuto da Caino non dev'essere inteso nel senso letterale, non è di un delitto vero e proprio che stiamo parlando, ma dell'uscita da una condizione di purezza incosciente (Abele) per l'acquisizione, mediante la separazione, di una purezza cosciente; perciò Abele rappresenta l'inizio e la fine, l'alpha e l'omega e nel mezzo c'è Caino con la sua irrequietezza e la sua ricerca orizzontale nella sfera dell'uomo separato dal divino. Possiamo ben considerare Caino come emblema di un "passaggio" all'età adulta dell'umanità, una condizione adolescenziale dell'individuo nella sua esperienza conflittuale con sè stesso e con il mondo. Ma per "esperienza" cosa s'intende: il compimento esteriore di atti autodistruttivi? Se ciò dovesse essere inteso in questo modo la spirale discendente sarebbe inarrestabile, poichè ogni nuovo passo verso l'abisso condurrebbe ad uno successivo; è proprio a questo punto che entra in gioco l'importanza dell'introspezione, dell'elaborazione interiore delle pulsioni inferiori che non devono, nel limite del possibile, essere esperite esteriormente, ma forgiate interiormente attraverso l'analisi introspettiva, la ricerca, la conoscenza. Date queste premesse, il fratricidio concreto nel mondo reale dev'essere considerato come un incidente di percorso, una mancata elaborazione e trasformazione della materia grezza e indomita nella fucina della dimensione psichica, perchè quel che Caino (l'uomo) deve compiere è una soppressione interiore le cui conseguenze nella realtà fisica devono essere minimizzate dall'azione dell'intelligenza e della volontà. Se ciò non avviene e la mente razionale, assieme all'aspetto puramente materialistico dell'esistenza, dovesse prendere il sopravvento al punto tale da "disintegrare" la presenza di Abele strappando anche ogni sottile legame con la polarità intuitiva, s'innescherebbe un processo autodistruttivo nel segno del nichilismo, che è la totale svalutazione dell'esistenza irrimediabilmente disgiunta dal senso di scopo, ossia da ideali, aspirazioni spirituali e obiettivi superiori.
"Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" (Dante, Divina commedia, canto XXVI)
Il "viver come bruti" a cui si riferisce Dante significa proprio questo: rifiutare il dovere evolutivo, l'azione dello Spirito Santo in noi, che è quella forza mediatrice che permette alla riflessione di agire prima dell'impulso, a Giacobbe di avere la primogetura al posto di Esaù. Per questo in Matteo 12:31-32 si legge il monito:
“Perciò io vi dico: ogni peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini; ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. A chiunque parli contro il Figlio dell’Uomo, sarà perdonato; ma a chiunque parli contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato né in questo mondo né in quello futuro. O fate l’albero buono e buono pure il suo frutto, o fate l’albero cattivo e cattivo pure il suo frutto; perché dal frutto si conosce l’albero”.
Immagine: "Il poema dell'anima", olio su tela di Louis Janmot (1814-1892). Misure: 112 x 144 cm.
Immagine: Sacro Cuore dell'iconografista contemporaneo russo Marek Czarnecki.Con il termine "Spirito Santo" s'intende quell'elemento mediatore raffigurato nell'iconografia cristiana dalla fiamma che sovrasta il cuore di Cristo come un potere ascensionale che divelle le radici interiori dell'illusione, dei falsi desideri, della falsa idea di bene e degli attaccamenti perniciosi, trascendendo la stessa dimensione umana con la nascita dell'uomo-dio, indicato con la figura del Cristo. Perciò il rifiuto verso lo Spirito Santo diviene per l'uomo un rifiuto verso il proprio dovere evolutivo, verso la chiamata ascensionale. Si potrebbe esporre in questo modo: non vi è nulla al di fuori di Dio, solo Dio esiste (la cui manifestazione nell'individuo è il Sè superiore) e rifiutare il percorso evolutivo significa porsi nella condizione di compiere atti distruttivi che si ripetono in una discesa "a spirale" senza speranza. Ma ciò non riguarda soltanto gli esempi estremi di concretizzazione del fratricidio; la minaccia peggiore per il destino umano si annida fra le pieghe della mediocrità, dell'apatia e dell'indifferenza verso la conoscenza; la realtà dell'individuo futile si può riassumere nel concetto di "banalità del male" formulato da Hannah Arendt, che è la forma più estrema di nichilismo: la realtà del bruto, la vacuità vera (che non è una dimensione "in potenza" come il "soffio" dell'Abele primordiale), l'assenza di un nucleo essenziale, di un fuoco interiore ascensionale. La mediocrità non appartiene nè alla polarità di Caino (passione) nè a quella di Abele (trascendenza): è il cono d'ombra dove agiscono le forze meccaniche del cosmo.
Immagine: "Il battesimo dello Spirito Santo", olio su tela di Ain Vares (Estonia, classe 1967)."Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile". (Vangelo di Matteo 3,12)
La metafora della pula indica un'esistenza vana, priva di senso di scopo, radicata nel materialismo e dominata dalle forze cieche; la pula (involucro dei chicchi) infatti, è inconsistente, è morta, non serve a nulla.
Detto ciò dobbiamo porre in risalto l'enorme differenza fra il male (nel senso di ciò che reca danno ad altri) compiuto in preda a passioni o concezioni errate, e quello compiuto per la mera soluzione di problemi immediati, per amore dello status quo o del "quieto vivere" perseguito solitamente da individui ordinari: i primi sono dovuti a stimoli superiori mal interpretati (possono essere ideali di giustizia, convinzioni ideologiche, impulsi visionari), i secondi a meschinità e pochezza d'animo; i primi sono seguiti da una trasmutazione dell'anima quando le illusioni svaniscono, i secondi sono sterili poichè il soggetto è privo di interiorità, e non può essere posto nemmeno nella condizione di essere giudicato o odiato, in virtù del fatto che non è mai venuto ad "essere".
"La triste verità è che la maggior parte del male è fatto da persone che non hanno mai cercato di capire la differenza fra il bene e il male". (Hannah Arendt)
Ed è proprio in quest'affermazione di Hannah Arendt che viene posta in risalto l'importanza del senso di scopo, la percezione del valore dell'esistenza, l'importanza dell'introspezione e della forza di volontà (nel senso di possedere una volontà interiore innata) come strumento fondamentale per contrastare l'attuazione di gesti distruttivi nel mondo esteriore, nella realtà materiale. Il concetto di "superamento" delle spinte distruttive mediante l'azione concreta nell'esperienza empirica può essere ammesso come inevitabile nello sviluppo storico dell'umanità intesa come massa e, in quanto tale, soggetta alla forza trainante degli eventi ciclici, ma il singolo, l'individuo, si può sottrarre a questa ineluttabilità proprio in virtù del suo essere autonomo e della conseguente facoltà di sfuggire a queste forze, di esercitare la propria libertà mediante autoriflessione e autodominio: l'umanità nel suo insieme non è perfettibile, ma il singolo sì, l'individuo soltanto si può affrancare dall'influsso negativo dei condizionamenti esterni, in modo da poter evitare con l'intelligenza le sofferenze altrimenti causate dall'esperienza. Il vero male non è compiere incidenti di percorso, ma rinunciare alla spinta evolutiva.
“Non smetteremo di esplorare, e alla fine di tutto il nostro andare
ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta.”
Thomas Stearns Eliot
Tuttavia, l'interpretazione di un mito non può mai essere univoca, data la complessità e le innumerevoli sfacettature di cui è costituito; in questo modo, le chiavi interpretative sono sempre molteplici, multidimensionali, ed ognuna pone in risalto una diversa verità. Nell'ambito della mitologia amerindia, interpretata dall'antropologo Levi-Strauss, si possono constatare le numerosissime versioni di uno stesso mito, versioni che spesso capovolgono letteralmente i ruoli dei personaggi e il loro valore simbolico; anche nella mitologia greca esistono numerose versioni di uno stesso mito e questa difformità era finalizzata, appunto, a mettere in luce i molti aspetti di un'unica realtà e il fondamentale dualismo insito in ogni figura simbolica. Ad un livello più superficiale, ad esempio, se nel mito che stiamo analizzando consideriamo il gregge di Abele come qualcosa di fisico così come il sangue versato nei suoi sacrifici, lo possiamo interpretare come archetipo dell'uomo ordinario, che incoscientemente esegue gli ordini, esente da qualsiasi responsabilità e gli agnelli come le vittime innocenti. In tal caso, al contrario, Caino si trasformerebbe in colui che si prende la responsabilità dei propri atti, trasgredendo i precetti divini, ma anche in esso vi è l'elemento contrario, perchè quando l'Eterno gli pone la domanda: "Dov'è tuo fratello?", Caino risponde "Sono forse io il custode di mio fratello?", indicando un totale rifiuto delle proprie responsabilità. Ecco allora che entrambi i personaggi, Caino e Abele, racchiudono aspetti evolutivi e antievolutivi: ogni gemello racchiude, a sua volta, un'ulteriore coppia di gemelli in un infinita biforcazione frattale.
Immagine: Il rimorso di Caino, olio su tela di Emanuel Krescenk Liska (1852-1903); 110 x 202 cm.
IL MITO GRECO DI PROMETEO ED EPIMETEO
La versione più antica a noi pervenuta della Titanomachia (lotta fra gli dèi e i titani) è quella narrata nella Teogonia di Esiodo (VIII-VII secolo a.C.), versi 617-721. I Titani figli di Urano e Gea erano sei maschi e sei femmine: Oceano, Ceo, Crios, Iperione, Giapeto, e Cronos (maschi); Thea, Rhea, Temi, Mnemosine, Febe e Thetys (femmine). I discendenti di questa prima generazione furono: i fratelli Prometeo ed Epimeteo (figli di Giapeto e Climene, quest'ultima figlia di Oceano e di Tetys), Atlante (uno dei fratelli di Prometeo), Latona (o Leto), Helios, Selene ed Eos (figli di Iperione). I figli della prima generazione, compresi Prometeo ed Epimeteo, erano essi stessi titani, rappresentati come giganti dotati di forza prodigiosa. Fra gli Dèi dell'Olimpo capeggiati da Zeus e i Titani si scatenò una guerra durata dieci anni (Titanomachia) nella quale i Titani furono sconfitti e relegati nella tenebrosa regione del Tartaro che, nella mitologia greca, si staccò dalla terra (Gea) non appena quest'ultima emerse dal Caos. Atlante, uno dei cinque fratelli di Prometeo, venne invece condannato a reggere sulle spalle il globo terrestre. Ma Gea, la Terra, non perdonò la sconfitta e la punizione dei propri figli (i Titani) a Zeus, così decise di scatenare contro gli Dèi dell'Olimpo un'altra sua progenie: quella dei Giganti, molto simili ai Titani, i più famosi dei quali erano Alcioneo, Porfirione, Tifeo, Encelado, Efialte, Eurito; questo secondo conflitto venne denominato "Gigantomachia", ma Zeus riuscì a sconfiggere anche questi altri esseri prodigiosi, con l'aiuto di Eracle (o Ercole), imprigionandoli all'interno dei vulcani.
Vediamo ora in particolare il mito dei titani Prometeo ed Epimeteo. Quando Zeus, il padre degli Dèi, ebbe ultimato la creazione di tutti gli esseri viventi, delegò a Prometeo (il preveggente) ed Epimeteo (l'imprevidente) il compito di assegnare ad ognuno di essi le qualità necessarie alla sopravvivenza e al relativo benessere. Ma Epimeteo concluse la sua opera assegnado tutte le qualità più vantaggiose quanto a forza, facoltà sensoriali e percettive, vista acuta, manto di folto pelo contro il freddo, ali per volare, ecc...a tutti gli animali dimenticandosi dell'uomo, che rimase nudo, debole e privo di difese. Prometeo, impietosito, decise di rubare il fuoco agli Dèi per farne dono all'umanità: salì una notte sul monte Olimpo mentre tutte le divinità erano immerse nel sonno e rubò una torcia dal carro di Elio per farne dono all'umanità. Quando Zeus scoprì il furto decise di punire Prometeo facendolo incatenare ad una montagna (il Caucaso), non troppo in basso da essere soccorso dagli umani, nè troppo in alto da essere vicino agli Dèi. Ogni giorno un'aquila scendeva su di lui e gli divorava il fegato; l'organo ricresceva per essere di nuovo divorato dal rapace e così per l'eternità. Tuttavia, la sorte di Prometeo mutò allorchè il semidio Eracle, figlio di Zeus, lo incontrò nel suo viaggio in cerca dei pomi delle Esperidi. Prometeo indica le direzioni del percorso ad Eracle oltre le terre del nord, informandolo del pericolo rappresentato dal gigante Gerione: un mostro demoniaco che l'eroe uccise impossessandosi dei suoi buoi. Eracle, come gesto riconoscente nei confronti del titano, tese il suo arco e uccise l'aquila che si avventava su di lui. Da quel momento in poi, Prometeo giurò di essere per sempre fedele alle leggi del Cosmo e degli Dèi. Dopo la liberazione di Prometeo, Zeus escogitò un piano per limitare i vantaggi derivati dal possesso del fuoco per gli uomini: fece condurre da Epimeteo (il fratello di Prometeo) una donna bellissima e colma di ogni virtù, intelligenza e creatività: Pandora. Essa recava con sè un magnifico e grande vaso come dono di Zeus, con la raccomandazione da parte del dio di non doverlo aprire mai. Tutti conosciamo il seguito della storia: Pandora non potè resistere alla curiosità, aprì il vaso e da esso uscirono tutti i mali del mondo come malattie fisiche e mentali, vizi e sciagure di ogni genere; solo la timida Speranza rimase sul fondo del vaso che venne chiuso in fretta. Così l'umanità ebbe il dono del fuoco ma, in compenso, anche numerosi tormenti.
Immagine: Prometeo ruba il fuoco agli dèi; olio su tela di Friedrich Heinrich Fugel (1751–1818); 222 x 156 cm.Interpretazione del mito di Prometeo ed Epimeteo
Il mito di Prometeo contiene una notevole complessità di concetti e si presta a molteplici interpretazioni; come ogni archetipo, anch'esso è ambivalente e personifica aspetti positivi e negativi dello sviluppo umano, costruttivi e degenerativi al contempo, in rapporto alle finalità nobili o meschine della volontà. Vedremo in seguito le sorprendenti convergenze fra il mito greco di Prometeo e i miti delle comunità indigene del Nord e Sud America, in particolare della cultura MODOC (Oregon) e BORORO (Amazzonia). In primo luogo è necessario mettere in chiaro che cosa rappresentano metaforicamente i Titani, figli della Terra e, in virtù di questo, forze immani dirompenti nell'animo umano, al pari delle forze ctonie che richiamano i fenomeni sismici e i vulcani. Come premessa sveliamo la natura del fuoco rubato da Prometeo agli Dèi e donato all'uomo, che è metafora di un inarrestabile spinta interiore verso la conoscenza e lo sviluppo delle potenzialità umane; in relazione a ciò le divinità dell'Olimpo impersonano le leggi cosmiche che sottendono all'equilibrio e all'armonia del creato, limitando e regolando le smisurate energie del cosmo in modo che non debba di nuovo precipitare nel Caos primordiale. L'essere umano, come riferito dal mito, è debole fisicamente rispetto agli animali e, sotto il profilo della sopravvivenza, inabile di fronte alle gigantesche forze della natura e questa carenza, grazie al dono di Prometeo, può essere controbilanciata dalla sua capacità di discernere e dalla conoscenza stessa del cosmo e dei suoi fenomeni, con la possibilità di piegarli, nel limite del possibile, alla propria volontà. Fin qui abbiamo esposto una spiegazione superficiale e utilitaristica del mito. Ad un'analisi più profonda, Prometeo non è "colui che dona il fuoco sacro degli Dèi all'uomo", bensì egli stesso "è" il fuoco come personificazione delle potenzialità umane e il mito, come ogni idealizzazione, esibisce i movimenti della coscienza sotto forma di personaggi divini e semidivini che operano in un teatro virtuale. In questo caso Prometeo è l'uomo stesso in cui si fonde creato (l'uomo) e forza creatrice (Prometeo). Prometeo ed Epimeteo sono i due gemelli interiori dell'anima umana, ossia intelletto e intuizione (Prometeo: "colui che riflette prima) e istinto e illusione (Epimeteo: "colui che riflette dopo"). Moltissime sono le chiavi di lettura a cui si presta questo mito, infinite le interpretazioni di filosofi e scrittori di ogni epoca. Il filosofo cristiano TERTULLIANO (160-240 d.C.) vide in Prometeo una prefigurazione di Cristo:
"E invero, fin dai primordi, uomini mandò nel mondo per la loro intemerata giustizia degni di conoscere e manifestare Dio, di spirito divino inondati, affinché predicassero che un Dio unico esiste, il quale l'universo creò e l'uomo fabricò di terra: questo infatti è il vero Prometeo che il mondo con determinate disposizioni e successioni di stagioni ordinò". (Tertulliano, Apologetico, capitolo 38)
Il monologo di Prometeo nella versione di ESCHILO (525-456 a.C.) recita così:
"Parlerò senza biasimo degli uomini, ma narrerò l’amore per il
mio dono. Essi avevano occhi e non vedevano, avevano le orecchie e non
udivano, somigliavano a immagini di sogno, ignoravano le case di mattoni, le opere del legno. Vivevano sottoterra come labili formiche, in grotte fonde senza il sole; ignari dei segni dell’inverno e della primavera o dell’estate che portava i suoi frutti, operavano sempre e non sapevano, finché indicai loro come si riconoscono il sorgere e tutti in scena il calare degli astri, e infine per loro scoprii il numero, la prima conoscenza, e i segni scritti come si compongono.
Mille cose inventai per i mortali, e ora, infelice, non ho alcuno
strumento che mi affranchi dal male che mi preme. Ancor di più ti stupirai udendo tutto il resto, le scienze che trovai, le vie che presi. E la più grande: se uno s’ammalava non aveva difesa, cibo unguento bevanda: si estingueva senza farmaci, finché indicai benefiche misture che tengono lontano tutti i morbi. Questo io feci. E chi prima di me scoprì i doni nascosti nella terra, il bronzo, il ferro, l’argento e l’oro? Nessuno, lo so bene, a dire onesto. Sappilo in breve: tutto ciò che gli uomini conoscono, proviene da Prometeo". (Eschilo, "Prometeo incatenato", versi 447-8)
E' utile osservare l'assonanza con il passo dei SALMI 115:4-8:
"I loro idoli sono argento e oro,
opera delle mani dell'uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno naso e non odorano,
hanno mani e non toccano,
hanno piedi e non camminano,
la loro gola non emette alcun suono.
Come loro sono quelli che li fanno,
tutti quelli che in essi confidano".
PUBLIO OVIDIO NASONE (poeta latino, 43 a.C.-18 d.C.) narra la creazione dell'uomo da parte di Prometeo nel primo libro delle "Metamorfosi", per mezzo di acqua e fango, dopo aver plasmato tutte le altre specie:
"Un essere vivente più nobile di questi, più degno ricettacolo di elevata intelligenza, ancora mancava, un essere che potesse signoreggiare su tutti gli altri. Nacque l'uomo, sia che quell'artefice della natura, principio di un mondo migliore, lo creasse come seme divino, sia che la terra giovane, or ora disgiunta dall'alto etere, trattenesse germi dall'affine cielo, e il figlio di Giapeto (Prometeo), intrisa d'acqua fluviale, la plasmasse secodno l'immagine degli dèi che reggono l'universo. E mentre gli altri esseri viventi, proni, tengono lo sguardo rivolto verso la terra, all'uomo concesse un volto eretto, gli impose di guardare il cielo e di levare sublimo gli sguardi verso le stelle. Così la Terre, che prima era stata confusa e senza forma, mutandosi ricevette la figura, prima ignota, dell'uomo". (Ovidio, "Le metamorfosi", Libro primo, "La creazione dell'uomo")
Il poeta britannico PERCY SHELLEY, nel 1820, compose un dramma romantico in versi, il "Prometeo liberato", ispirandosi all'omonima tragedia di Eschilo purtroppo perduta, solo che la versione di Shelley non prevede una riconciliazione di Prometeo con Zeus, bensì la detronizzazione di quest'ultimo; una visione coerente con il movimento culturale del ROMANTICISMO ottocentesco e la sua costante tensione verso l'infinito dai tratti spesso irrazionali, ma assolutamente confidenti nel potere taumaturgico e redentivo dell'uomo. La trama è incentrata sulla prigionia di Prometeo, incatenato ad una roccia per volontà di Giove, Re degli dèi. Un avvoltoio gli divora il fegato ogni volta che questo ricresce. Prometeo sopporta con fermezza ogni tortura a lui inflitta, pur sapendo che se rivelasse a Giove il segreto della sua detronizzazione futura potrebbe porre fine ai propri tormenti. Viene infine liberato da Eracle, mentre Demogorgone, una divinità degli Inferi, causa la rovina del regno di Giove considerato in quest'opera come un male assoluto ed un tiranno. A pagina 57, Atto Primo, Prometeo, incatenato alla rupe, esprime il proprio anelito di redenzione:
"Lieto sarei, se di me fosse alfine
ciò ch'essere dee: redimere l'umana
specie dal male e dal dolore, o tutto
nel primitivo baratro annegarmi
delle cose" (Percy Shelley: Atto Primo, Prometeo liberato);
e da queste parole si evince il titanico disprezzo verso qualsiasi compromesso, il rifiuto del principio stesso di realtà, se consideriamo gli dèi come forze universali intimamente unite all'ordinamento cosmico. In questo caso la spinta evolutiva prometeica trascende i limiti necessari della realtà, e scaturisce essa stessa dalla necessità parallela del genio di imporsi sulla manifestazione universale creando una contrapposizione Dio-uomo, nella prospettiva di creare l'uomo-Dio. Questa forza propulsiva viene tuttavia armonizzata con l'ordine del Tutto nel dramma di ESCHILO, dove in fin dei conti, dopo la liberazione da parte di Eracle, Prometeo si riconcilia con Giove promettendo di seguire da allora in poi le sue leggi. Nel Prometeo liberato di Shelley, al contrario, la spinta idealistica è condotta ad un punto estremo, con la detronizzazione stessa di Zeus mediante l'assimilazione delle stesse potenzialità divine nell'interiorità dell'uomo. Vi è dunque in ESCHILO una redenzione mediante conciliazione e armonizzazione delle forze opposte Dio-uomo; in Shelley una redenzione dell'umanità e della natura stessa per mezzo dell'assimilazione, ossia dell'acquisizione delle potenzialità divine piegate alla propria volontà. L'avvento dell'uomo-dio, come espresso nei versi conclusivi dell'opera, genera un universale processo di trasmutazione e redenzione della Natura stessa:
"Queste saran le magiche parole,
per cui di nuovo sul giudizio avverso
abbia vittoria la redenta prole
e racquisti l'imper dell'universo.
Danni soffrir cui la Speranza suole
credere eterni; essere tra' mali immerso;
sfidar chi sembra onnipossente; duri
torti obliar più della morte oscuri" (Percy Shelley, Prometeo liberato, atto finale);
vengono qui esposti i principi che guidano lo stesso genio, guidato dalla forza propulsiva del fuoco interiore (lo spirito prometeico) indifferente finanche alla resa della speranza stessa poichè nulla vi è di più "essenziale" dell'Essenza stessa di colui che da "creato" si tramuta in Creatore. Ma Prometeo stesso, secondo il mito, creò l'uomo plasmandolo con acqua e fango, e perciò la creazione dell'umanità diviene un'autogenerazione, essendo Prometeo archetipo dello stesso Spirito umano (nella sua accezione superiore). Se invece consideriamo Zeus e le divinità del pantheon come metafore del potere temporale, religioso e monarchico vigente ai tempi dell'autore (P. Shelley), l'interpretazione si abbassa ad un livello demagogico con la ribellione verso il potere costituito e i suoi dogmi, per la libera realizzazione (spirituale) individuale. Ed ecco che, in questo romantico quadro ideologico, l'uomo stesso è condotto dal proprio spirito prometeico alla consapevolezza del proprio essere ipostasi divina. Sotto questo aspetto Prometeo richiama la figura di Cristo perseguitato dai giudici difensori della vecchia legge del Sinedrio che si opposero alla rivelazione cristiana come elemento di mediazione tra filosofico e teologico, tra umano e divino. Questa assonanza fra Cristo e Prometeo la possiamo notare in molte opere d'arte paleocristiana come il "SARCOFAGO DI PROMETEO" esposto al Louvre, in marmo, datato al III secolo d.C., scoperto ad ARLES nel XVI secolo in cui furono inumate le spoglie del VESCOVO ILARIO: le scene in bassorilievo, con molte altre divinità del pantheon ellenico, raffigurano la creazione dell'uomo da parte del titano Prometeo. Il grande portale di bronzo del FILARETE nella BASILICA DI SAN PIETRO, alto 7 metri, del XV secolo, fra le cui diverse iconografie cristiane compare un Prometeo intento a formare il primo uomo.
Nel poemetto di 57 versi "Prometheus" di J. W. GOETHE (1749-1832) viene posta in rilievo la solitudine dell'uomo di fronte all'indifferenza dell'universo e del divino:
"...Io renderti onore? E perchè?
Hai mai lenito i dolori di me ch'ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch'ero in angoscia?
Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l'eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?..."
Il risvolto negativo dello spirito prometeico può essere determinato dalla deriva verso un assoluto pragmatismo della tecnica e dell'ingegno umano, fino a cadere in una spirale autodistruttiva nella sfida all'ordine divino costituito, al quale perfino gli dèi sono sottoposti in quanto, se vogliamo porla in termini scientifici, se l'osservatore crea la realtà, egli è comunque sottoposto ad un'osservazione (e dunque una legge) più universale ed ineluttabile rispetto alla propria volontà soggettiva; e, paradossalmente, sono le stesse forze coercitive della realtà che, con il loro attrito, permettono lo sviluppo della conoscenza e delle forme superiori di creatività. Dobbiamo allora giudicare positivamente la conclusione di ESCHILO, con la riconciliazione fra Prometeo e gli dèi dell'Olimpo, arresosi infine a quel più esteso campo di forze spirituali che sovrasta la sfera del pensiero e del genio umano. Molto affascinante, sicuramente, la conclusione del Prometeo liberato di SHELLEY, coinvolgente sotto l'aspetto poetico, ma circonfusa da un'idealismo adolescenziale, in cui l'uomo viene divinizzato senza prima attraversare il guado dell'umiltà di fronte al divino, alla natura stessa e all'universo, senza prima riconoscere la propria impotenza fondamentale nei confronti delle leggi cosmiche. L'accettazione così diviene, paradossalmente, il presupposto del superamento, dell'accesso ad una superiore dimensione esistenziale, fenomenica e psichica. Questo concetto viene posto in evidenza da TEMISTOCLE nelle "Storie" dello storico greco ERODOTO (484-425 a.C), quando il generale ateniese, dopo aver sconfitto i Persiani, proclama:
"Poichè quest'impresa non l'abbiamo compiuta noi, ma gli dèi e gli eroi i quali non permisero che un uomo solo, per giunta empio e temerario, regnasse sull'Asia e sull'Europa, uno che teneva in egual conto le cose sacre e profane, incendiando e abbattendo i simulacri degli dèi, uno che frustò e mise in catene anche il mare..."
Ciò significa che in assenza di una visione sacra e contemplativa del cosmo e della natura, lo sviluppo della tecnica e della conoscenza conduce ad un baratro chiamato "alienazione", poichè la scissione dell'uomo dal divino ha come conseguenza il primato degli aspetti inferiori della personalità umana, come nichilismo e materialismo giunti all'apoteosi nella nostra epoca. Non vi è solo il "divenire", ma anche la sua mèta, che è la pienezza in una superiore dimensione dello spirito. ERACLITO stesso, filosofo del divenire, pone un limite a questo flusso perpetuo, poichè non vi è alcun "divenire" senza il presupposto dell'"essere" ed ogni movimento ha come obiettivo la concretizzazione, il "venire ad essere". Questo concetto vale anche, e soprattutto, ammettendo il principio che tutto si generi dal basso, ma che la coscienza emerga e si sviluppi per effetto della trazione di ciò che, al di là dello spazio e del tempo, consiste nella realizzazione futura, se vogliamo attenerci alle nuove deduzioni della fisica teorica (vedi Yakir Aharonov). Ma tutto ciò lo dobbiamo intendere in termini di auto-realizzazione, di somma mèta individuale, poichè anche in una società altamente evoluta il male, seppure in forma più blanda, sarebbe comunque inevitabile: la pienezza esistenziale non è per le masse, ma l'individuo in sè stesso deve aprire il varco di una più profonda percezione influendo, al contempo, sul corso della storia. Il crollo del ponte fra l'uomo e il sacro, laddove il soggetto concepisce qualcosa di più grande di sè, apre il baratro del solipsismo come distacco patologico dal principio stesso di realtà, la quale si manifesta fuori e dentro di noi. Tuttavia, simboli stessi del mito, come l'aquila che divora il fegato del titano, evocano la possibilità salvifica dello spirito prometeico: l'aquila rappresenta l'espansione della coscienza, la visione olistica, della realtà che tutto contempla da una prospettiva superiore; il fegato indica la forza d'animo, il potere trasmutativo poichè quest'organo soprintende all'elaborazione delle sostanze corporee attraverso il metabolismo e la trasformazione del cibo, dunque è accomunato, per analogia, alla psiche nelle sue dinamiche di trasmutazione alchemica e spirituale, di purificazione. Lo stesso spirito prometeico, perciò, che si ribella agli dèi per porre in atto le proprie aspirazioni, rappresenta l'elemento, il fuoco (l'energia interiore) indispensabile per l'accesso a una superiore dimensione della realtà. E mediante l'energia di quello stesso spirito prometeico che lo ha scisso, l'uomo sarà salvato dal momento in cui la mente speculativa si riconcilierà con la mente contemplativa sconfiggendo i fantasmi dei deliri di onnipotenza e la conseguente percezione dell'intero universo (impersonato dagli dèi olimpici) come un nemico persecutore; allora l'aquila di Zeus, come mente espansa, potrà mettere in atto il suo potere trasmutativo. Ed ecco che la visione di ESCHILO nel PROMETEO LIBERATO si accorda perfettamente con il modello classico di equilibrio ed armonia, espresso nell'arte e nell'architettura greca, mai imponente, ma in assonanza con le forme delle natura circostante. Nella prospettiva storica ciò corrisponde alla convergenza fra scienza e spiritualità intesa nel suo valore mistico e di alchimia interiore.
E' rilevante, in conclusione, ricordare (fra i molti altri) il parallelismo fra il mito greco di Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per donarlo all'umanità e quello della comunità BORORO, nella foresta Amazzonica, che narra di come il DIO GIAGUARO rubò il fuoco agli dèi del cielo per portarlo agli uomini, descritto dagli antropologi strutturalisti LEVI-STRAUSS, M.DETIENNE e PIERRE VIDAL NAQUET come la metafora del passaggio dalla natura alla cultura, essendo strettamente connesso questo elemento alla cottura dei cibi e quindi, per analogia, a tutti i processi di trasformazione, materiale e spirituale.
I GEMELLI EROI DELLA MITOLOGIA MAYA
HUNAPU E XBALANQUE: IL VIAGGIO AGLI INFERI DEGLI EROI GEMELLI DELLA DUALITA'
Gli Eroi Gemelli, Hunapu e Xbalanque, sono i protagonisti principali delle leggende maya narrate nel Popol Vuh (manoscritto post-coloniale in lingua maya-quichè e caratteri latini, opera di sconosciuti autori nativi del XVI secolo che, in questo modo, salvarono parte delle tradizioni della civiltà Maya, dopo che le immense biblioteche dei templi vennero distrutte dai conquistatori spagnoli). Il padre (Hun-Hunahpu: dio del mais) e lo zio (Vucub-Huanahpu) di Hunapu e Xbalanquè furono uccisi dalle divinità degli Inferi (Xibalba) perchè non avevano superato le prove a cui vennero sottoposti. Hun-Camé e Vucub-Camé erano i principali Signori di Xibalbá, i giudici supremi e coloro che assegnavano compiti a ciascun altro. Gli dèi infernali, dunque, appesero la testa dello sconfitto padre dei gemelli ad un albero e da qui nasce la storia del loro concepimento. Un bel giorno, una ragazza del regno di Xibalba, Ixquic, si avvicinò all'albero e ricevette una goccia di saliva dal teschio del padre dei Gemelli, il quale le rivelò che da quel momento avrebbe concepito da lui. La ragazza diede alla luce i due Gemelli Hunapu e Xbalanquè, portandoli poi a casa dalla nonna, la quale non li amava; i Gemelli divennero anche oggetto di scherno dai due fratellastri maggiori (Scimmia Urlatrice e Uno-Artigiano), che erano preoccupati per l'attenzione che i Gemelli potevano sottrarre a loro e ai loro talenti (e qui si ripresenta il tema dell'invidia); oltre a ciò, la nonna diede ordine ai fratellastri di portarli fuori di casa, perchè infastidita dal loro pianto, così che vennero abbandonati la notte in un formicaio in mezzo ai rovi. I Gemelli crebbero e vissero miseramente nella casa ostile, lavorando duramente per offrire i frutti migliori dei propri sacrifici ai fratelli che li vessavano. Un giorno, però, i Gemelli Divini diedero la prova del proprio potere soprannaturale tendendo una trappola ai fratellastri malvagi: dissero loro che non avevano potuto cacciare uccelli, perchè tutti nascosti fra le fronde degli alberi; dunque i fratellastri decisero di salire su un albero per stanare gli uccelli, rimanendo vittime dell'incantesimo dei Gemelli, che fecero crescere l'albero fino in cielo in modo che non poterono più scendere, trasformandoli in scimmie (questo episodio è simile a quello dello "snidatore d'uccelli" del mito delle tribù Klamath dell'Oregon: l'eroe Aishish, narrato nel libro "L'uomo nudo" dell'antropologo Claude Levi-Strauss). Quando i fratellastri fecero ritorno a casa in quella forma, la nonna non si trattenne dalle risate ed essi fuggirono in preda alla vergogna. Da quel momento, i due Gemelli iniziarono a giocare a palla (gioco tenuto nascosto fino ad allora dalla nonna), finchè un giorno ricevettero un messaggio dagli dèi sulla sorte di loro padre e dello zio, così decisero di affrontare gli dèi di Xibalba scendendo fin nelle viscere della terra, attraverso caverne ed antri sotterranei pieni di scorpioni, fiumi di sangue e malattia. Giunsero infine alla città sotterranea da dove le entità infernali governavano le sorti del mondo causando molte sofferenze agli esseri umani. Quando i Gemelli giunsero a Xibalba le entità malefiche si confusero con le statue per non essere viste, ma i fratelli colpirono le sculture con dardi, in modo che gli dèi, feriti, furono costretti a mostrarsi. Dopo questo affronto, gli dèi obbligarono i Gemelli a trascorrere la notte nella Casa delle Tenebre con solo una torcia che dovevano accendere senza fuoco, in modo che essi la adornarono con piume di Ara rosse e ci fecero volare intorno le lucciole. Gli dèi, oltraggiati dalla loro genialità, invitarono i Gemelli a sfidarli al gioco della palla, con un inganno nascosto nella palla stessa, che era all'interno munita di un'arma tagliente allo scopo di ucciderli. I Gemelli sopravvissero alla prima sfida e anche alle successive; ma questa fortuna li legò ancora di più al risentimento degli dèi, che li costringevano a fronteggiare qualsiasi prova soprannaturale prima di ricominciare il gioco della palla. Così i Gemelli sopravvissero a numerose terribili prove: alla Casa del Freddo accendendo in fuoco, alla Casa dei Giaguari gettando ossa alle belve ma, quando giunsero alla Casa dei Pipistrelli, uno di essi, il dio-pipistrello Camazotz, staccò la testa ad Hunapu. Dopo questo fatto, i demoni infernali si sentirono più sicuri della vittoria e ordinarono un'altra partita a palla, questa volta appendendo la testa di Hunapu sul canestro di pietra. Xbalanquè, senza perdere coraggio, pregò tutti gli animali di venire in suo aiuto, finchè una tartaruga si presentò offrendogli una zucca che egli incise in forma di testa umana, sostituendo quella del fratello appesa al canestro; recuperata la testa di Hunapu e ricollocata sul suo corpo i fratelli iniziarono di nuovo a giocare finchè, inavvertitamente, colpirono la zucca-testa sul canestro facendola schiantare al suolo, in modo che essa si aprì rivelando l'inganno. Così i Signori di Xibalba decisero di uccidere i Gemelli attirandoli con l'inganno all'interno di un forno di pietra per bruciarli; nonostante si fossero accorti dell'inganno, i fratelli lasciarono fare e le loro ceneri vennero poi gettate nel fiume; una volta nel fiume, dalle ceneri ne si rigenerarono i corpi sottoforma di una coppia di bambini. Nessuno li riconobbe e perciò furono ben accolti dagli abitanti di Xibalba. Presto si diffusero le voci sui prodigi compiuti dai Gemelli, per cui da tutti ricevevano ammirazione. Fra questi, vi era l'incantesimo della casa bruciata, che faceva apparire le abitazioni avvolte dalle fiamme e distrutte, per poi miracolosamente essere fatte ricomparire intatte. Questo fatto degli incendi illusori giunse alle orecchie dei Signori di Xibalba, che convocarono i Gemelli ordinando loro di farli assistere a tale prodigio. I ragazzi accettarono di esibirsi per i Signori, ma le loro identità rimasero nascoste, dicendo di essere semplici vagabondi (qui è ripreso il tema dell'identità nascosta come nell'Odissea, quando Ulisse si nascose sotto le spoglie di un vecchio vagabondo). I loro incantesimi videro un cane ucciso e resuscitato, i palazzi dei Signori incendiati e poi ricomparsi intatti dalle ceneri, fino all'uccisione di Hunapu da parte di Xbalanquè, che poi fece risorgere il fratello dalla morte per la seconda volta. I Signori più potenti di Xibalba, Uno-Morte e Sette-Morte (Hun Camé e Vucub Camé), si offrirono allora ingenuamente in sacrificio, convinti di essere poi resuscitati, ma i fratelli non li riportarono in vita, svelando la propria identità come figli di Un-Hunapu e nipoti di Sette-Hunahpu: padre e zio un tempo uccisi dai Signori degli Inferi (Xibalba). Tutti gli altri Signori vennero risparmiati dalla clemenza dei Gemelli e grazie al proprio pentimento. Da quel momento il Regno di Xibalba non avrebbe più dovuto ricevere sacrifici e doni dagli abitanti della terra, e sarebbe stato per sempre disprezzato. Dopo tutte queste traversie, i Gemelli si occuparono delle spoglie del loro padre, cercando di riportarlo in vita, ma i loro sforzi furono inutili. Alla fine, i Gemelli si trasformarono nel Sole (Hunapu) e nella Luna (Xbalanque), regnando sul mondo e giurando di onorare sempre la memoria dello sfortunato padre.
Descrizione del gioco della palla come rito simbolico e il mito maya dei Gemelli Divini
L'antico gioco della palla (di origine olmeca) presso la civiltà Maya non era una semplice competizione fra sportivi come ai giorni nostri, ma un vero e proprio rito simbolico nel quale ogni risultato era connesso ai miti cosmogonici per cui la palla, che i giocatori non dovevano mai far cadere a terra, simboleggiava i movimenti del disco solare. La palla era formata da strisce di gomma ricavate dall'albero della gomma (Castilla elastica) che si trova in America Centrale. Il lattice estratto da questo albero veniva mescolato con una sostanza distillata da una pianta rampicante dai fiori bianchi: la "Ipomoea Alba", anch'essa originaria del Centro America. Un esemplare autentico, perfettamente conservato e risalente a 2000 anni fa (diametro: 8 cm.), di queste palle di caucciù è stato scoperto nel sito archeologico maya di Kaminaljuyu, Guatemala. In ogni città maya era presente il campo per il gioco della pelota. Sul muro di cinta del campo da gioco vi era collocato un cerchio di pietra, vuoto al centro, nel quale i giocatori dovevano lanciare la palla; la regola imponeva ai contendenti di non toccare mai la palla con i piedi, ma dovevano palleggiare unicamente con fianchi e ginocchia; chi faceva cadere la palla a terra prima di averla lanciata nel canestro, perdeva la partita e veniva anche sacrificato agli dei. Le modalità del sacrificio sono discordanti fra gli studiosi: alcune fonti ipotizzano siano stati i vincitori ad essere sacrificati, perchè le divinità dovevano essere onorate con il sangue dei migliori; altre che fossero invece gli sconfitti. La partita veniva interpretata dai sacerdoti come riferimento a personaggi legati ai miti narrati nel Popol Vuh, in particolare ai Gemelli Eroi, Hunapu e Xbalanque, che accettarono la sfida al gioco della palla con i Signori degli Inferi, sconfiggendoli. Il gioco si convertiva, in questo modo, in una metafora di vita, morte, resurrezione. I Signori degli Inferi (Xibalba), infatti, avevano inserito lame e schegge nella palla di gomma, allo scopo di uccidere i gemelli, ma non ci riuscirono;con l'inganno li intrappolarono poi in un forno di pietra bruciandoli, ma i Gemelli resuscitarono.
Immagine: Disco di pietra con figure a bassorilievo / Civiltà Maya / La raffigurazione centrale ritrae un giocatore di palla e 12 glifi sulla circonferenza, compresa la data di inaugurazione del campo da gioco dove è stato collocato: 591 d.C.(corrrispondente alla cifra del Lungo Computo del calendario maya "9.7.17.12.14") / Materiale: pietra calcarea / Diametro: 55 centimetri / Spessore: 14 centimetri / Funzione: marcatore per dividere il terreno del campo da gioco / Provenienza: scoperto durante i lavori di esplorazione effettuati all'inizio del XX secolo nel campo da gioco del Gruppo C della zona archeologica di Chinkultic (Chiapas, Messico), un centro minore datato dal III al IX secolo d.C., nei pressi della città moderna di Comitàn / Il manufatto venne scoperto nel 1936 / Oggi conservato presso il Museo Nazionale di Antropologia e Storia di Città del Messico.
Interpretazione del mito dei Gemelli Divini nella civiltà Maya
L'archetipo dei Gemelli, connesso alla dualità universale, è presente in tutte le culture e i continenti: Antico Egitto, Mesopotamia, Africa, Giappone, mitologia greco-romana, mitologia scandinava, fino alla Bibbia e ai Tarocchi (solo per citare alcuni esempi che approfondiremo prossimamente). I Gemelli rappresentavano, nella mitologia maya, la dualità e l'archetipo delle forze complementari che, nella loro armonizzazione, creano e sostengono l'equilibrio e la vita. Come sappiamo, il Popol Vuh ci presenta tre coppie di gemelli: Hun-Hunahpú e suo fratello Vucub-Hunahpú, i figli gemelli Hunahpú e Xbalanqué, e i loro fratellastri Hun Batz e Hun Chuen (Scimmia-urlatrice e Un-Artigiano). I Signori di Xibalba non sopportavano il baccano dei Gemelli (durante il loro soggiorno agli Inferi allo scopo di vendicare la morte del padre), e il loro giocare continuamente a palla, arrivando ad organizzarne l'uccisione. Ciò può rappresentare la dimensione del caos e del sonno in cui sono immersi gli elementi ancora inconsci e la loro resistenza al richiamo superiore (emersione), oltre alle forze della "dissoluzione" e della morte, insite in tutto ciò che esiste, e la resistenza delle energie vitali (Gemelli) all'impulso distruttivo e alla disgregazione. In poche parole, il mito dei Gemelli Eroi simboleggia la lotta dell'umanità contro le forze della morte e del caos per garantire l'equilibrio e la stabilità della dimensione umana e naturale, seguendo il modello universale, appunto, di autosacrificio, morte e resurrezione, per il raggiungimento della perfetta armonia degli opposti: maschile-femminile; giorno-notte; anima e corpo; materia e spirito; passione e temperanza, ecc...L'acume dei Gemelli Hunapu e Xbalanquè ricorda molto da vicino l'intelligenza di Ulisse nello sconfiggere i propri nemici (illusioni e forze distruttive) durante il suo viaggio per giungere di nuovo a casa (Itaca) e liberare la propria anima (Penelope) vessata da queste presenze ostili (Proci); in entrambi i miti, il medesimo messaggio: soltanto con il genio e la creatività si possono sconfiggere gli orchi invisibili (ma potenti) del piano mentale e cosmico. Gli orchi (dèi infernali) possono essere interpretati come le entità puramente meccaniche dell'universo, che lo governano e lo sottomettono finchè genio e creatività permettono all'essere umano di trascendere le limitazioni dovute all'azione di tali forze, di avere una propria autodeterminazione, come i Gemelli hanno dimostrato suscitando le ire degli dèi, e come Ulisse ha dimostrato superando il potere delle illusioni.
Immagine: i Gemelli Divini, Hunapu e Xbalanque, sfidano al gioco della palla le divinità infernali di Xibalba. Dipinto di Luis Garay, artista nicaraguense contemporaneo.
NIGERIA: MITO YORUBA DEI GEMELLI IBEJI
In Africa, possiamo portare ad esempio il mito Yoruba dei Gemelli Ibeji. Gli Yoruba sono un gruppo etnico presente soprattutto in Nigeria. La mitologia e i culti originali della loro cultura hanno subito, nel tempo, un sincretismo con la religione cristiana. Nei secoli scorsi, a causa della tratta degli schiavi e della deportazione di un gran numero di persone nelle Americhe, queste tradizioni originali si sono trasformate nei culti sincretici della Santeria nei Caraibi; Candomblè, Umbanda e Vudù in Brasile. La storia dei Gemelli Ibeji ebbe inizio in tempi lontani, quando la dea della Creazione Yemoya li diede alla luce; sfortunatamente, uno di essi morì durante l'infanzia e la dea, che aveva un indole protettiva e amorevole, sentendosi il cuore spezzato, cadde in una profonda ed inguaribile tristezza. Ma Yemoya non si lasciò sopraffare dalla disperazione e, con grande determinazione, plasmò la forma del gemello defunto nel legno; in seguito, con un atto divino diede vita al bambino di legno, infondendo in lui lo spirito del figlio perduto e ora ritrovato. I Gemelli Ibeji, un giorno, nascosto nelle foreste della terra degli Yoruba, incontrarono uno spirito che li sottopose a numerose sfide, superandole tutte grazie alla loro intelligenza e al loro ingegno (qui viene ripreso il tema della genialità come mezzo trascendentale). Un giorno, i Gemelli Ibeji incontrano un altro essere soprannaturale, Elegua (o Elegbara in lingua yoruba: "Maestro della Forza"), che li soppose a molti enigmi (questo episodio ricorda molto da vicino gli enigmi della Sfinge di Edipo); questo dio è conosciuto come un imbroglione supervisore dei sentieri, si presenta sia come un vecchio saggio che come un ragazzo dispettoso, ma i Gemelli riuscirono a superare anche i suoi trucchi e i suoi tranelli, dimostrando una maturità sorprendente per la loro età, anche questa volta premiati dall'intelligenza e dalla perseveranza. Quando giunsero al Regno di Oyo, i gemelli (ormai celebri per le loro capacità in tutte le terre dello Yorubaland, come Hunapu e Xbalanquè nel Regno di Xibalba della mitologia maya) furono convocati dal Re Orayan per ricevere da loro consigli per affrontare gli avversari del suo regno; il Re venne pienamente esaudito e il suo Regno divenne prospero e saldo, aumentando ancor di più la fama dei gemelli prodigiosi. In un altro episodio, i gemelli Ibeji scoprirono un regno nascosto nella profondità della foresta, che custodiva un laghetto di preziose acque curative; così, conoscendo il luogo d'origine di queste acque, portarono ristoro e guarigione a tutti coloro che ne avessero bisogno. Nella religione Yoruba, i gemelli sono visti come un'unica anima divisa in due corpi, assolutamente complementari fra loro, in modo che, se uno viene a mancare, è necessaria la sua sostituzione con una bambola di legno in grado di conservare la polarità mancante dell'anima. I gemelli, come simbolo di equlibrio fra le forze, sono associati alla guarigione e alla preveggenza. E', dunque, fondamentale per gli esseri umani mantenere un contatto spirituale costante con questi "enti" che soprintendono all'armonizzazione degli opposti e al perfetto equilibrio che sostiene la vita in ogni sua manifestazione.
Immagine: statuette lignee della cultura Yoruba (Nigeria) raffiguranti i gemelli Ibeji del mito. Datazione assente, forse contemporanee.
NORD AMERICA: MITI DEI GEMELLI DIVINI NELLE CULTURE NATIVE
10- Tutte le culture native dell'America del Nord riprendono il mito dei Gemelli divini; per fare una breve panoramica: presso le tribù WABANAKI, fra Canada e Stati Uniti, il mito narra le vicende dei gemelli Gluskap e Mikumwesu (o Marten); nel mito YUMA (Arizona) abbiamo i gemelli Kokomath e Bahotal come aspetti complemetari della natura; nella leggenda del popolo SEMINOLE della Florida abbiamo i gemelli detti "Piccoli-Tuoni", connessi all'acqua, considerati l'uno come il lampo, l'altro come il tuono; nel mito NAVAJO (fra Utah e Nuovo Messico) dalla dea Azdza-Nadleeh nacquero i gemelli Mostro-Slayer e Nato-dall'Acqua, che combattono i mostri che tormentano l'umanità, aiutati dal loro padre Sole. Nel mito degli IROCHESI del nord est degli Stati Uniti abbiamo i gemelli Tawiskara e Yosheka, che in questo caso rappresentano il lato negativo dei gemelli, perchè in conflitto fra loro, in quanto il primo incarna le forze del caos e della morte, il secondo, come dio celeste, le forze vitali e l'ordine cosmico; dobbiamo però considerare che in tutti i miti nordamericani condivisi, i ruoli vengono spesso invertiti e modificati nell'ambito di culture distanti anche poche centinaia di chilometri fra loro (come appreso da "L'uomo nudo" di LEVI-STRAUSS), pur mantenendo uno schema costante di base; perciò anche riguardo questo mito i gemelli appaiono cooperare in alcune versioni, mentre in altre sono in conflitto, desiderando il Dio del Cielo (Yosheka) vendicare la madre ferita dal fratello durante il parto; ma in buona sostanza il messaggio di tutte queste narrazioni può essere interpretato su più livelli: quello biologico di interazione fra le forze del dissolvimento e della rigenerazione (Tawiskara e Yosheka) e quello psicologico fra luce e ombra, coscienza e inconscio. Come osserva CLAUDE LEVI-STRAUSS, i gemelli della mitologia classica europea seguono uno schema uniforme, per cui sono identici o rivali; nella mitologia amerindia, invece, i ruoli vengono spesso invertiti e non seguono uno schema rigido e lineare, lasciando ampio spazio all'esposizione delle diverse e innumerevoli sfaccettature della realtà.
Il mito dei Gemelli-Celesti trasformati in stelle delle tribù MODOC, fra California e Oregon, è narrato nel libro "L'UOMO NUDO" di CLAUDE LEVI-STRAUSS, pagine 50-51-52:
I FRATELLI CELESTI-M539-Modoc
<< Al tempo in cui gli animali non si distinguevano dagli uomini, sulla sponda meridionale del fiume Klamath vivevano cinque fratelli. Era gente cattiva. Il maggiore aveva sposato Storno, gli altri quattro erano celibi. L'ultimo si chiamava Tutats. Sua sorella Tekewas, che era sposata con Lontra e abitava poco lontano, era pazza di lui fin da quando era piccola. Ma invano indugiava ogni volta che veniva a far visita alla famiglia non riusciva mai a vedre il fratello prediletto perchè la madre lo teneva nascosto sotto terra in un paniere di scorza e lo faceva uscire solo in gran segreto. Un giorno che lo avevano portato al fiume a fare il bagno, il ragazzo perse un capello. Lo trovò Tekewas alla prima visita che fece e si mise a far domande alla madre. Ma quella le rispose: "Perchè vieni sempre a importunare i tuoi fratelli? Tu sei la moglie di Lontra e faresti meglio a restartene a casa tua". La volta dopo, ritornò carica di doni e promise delle perle a chi dei fratelli la riaccompagnasse dal marito. Ma li rifiutò tutti uno dopo l'altro e insistè perchè fosse Tutats a riportarla a casa. Nello stesso tempo chiese al sole di precipitare la sua corsa e di tramontare il più presto possibile. Dato che i fratelli avevano una tremenda paura che la sorella passasse la notte da loro, si deciser a far uscire Tutats, gli pettinarono i capelli che aveva lunghi fino ai piedi e lo affidarono alla sorella, incuranti delle sue lòcrime e delle sue proteste. Il ragazzo continuò a piangere mentre camminava dietro di lei. Tekewas parlò così duramente al sole che l'astro si impaurì e scomparve sotto l'orizzonte. I due fratelli dovettero accamparsi; si coricarono, e appena egli si fu addormentato, lei gli si infilò accanto. Questa manovra risvegliò il ragazzo che aspettò che si fosse addormentata per mettere al proprio posto un ceppo, quindi corse ad avvertire i fratelli del pericolo che li minacciava. Infatti egli pensava che la sorella li avrebbe uccisi tutti. I fratelli chiesero a ragno di prenderli nel suo paniere e di portarli fino in cielo. Sopraggiunse Tekewas e, fuori di sè dalla rabbia per essere stata preceduta, dette fuoco alla capanna. Nonostante la proibizione, fatta da Ragno, di guardare in basso prima che l'ascensione avesse termine, uno dei fratelli si sporse per vedere; in quello stesso istante il filo si ruppe e i passeggeri caddero fra le fiamme. Frattanto la madre e la figlia si battevano a colpi di pagaia. Tekewas fece cadere nel fuoco l'arma dell'avversaria e si servì della sua per spingervi i fratelli uno dopo l'altro. Le due donne continuavano a combattere, la madre a sud e la figlia a nord della capanna incendiata. La madre riuscì ad estrarre dal fuoco il cuore di Tutats e lo trasformò nel monte Shasta; poi recuperò gli altri quattro cuori e li mutò in altrettante montagne più basse. Convinta di aver ucciso i fratelli, Tekewas ricostruì il domicilio coniugale. La madre si mise alla ricerca di Storno, ma anche lei era morta dopo aver partorito due gemelli. La vecchia li strinse così forte l'uno all'altro, che formarono un unico fanciullo a cui fu dato il nome di Weahjukèwas. Scavata una fossa, la nonna ce lo nascose dentro. Non molto teempo dopo Tekewas ricominciò a tormentare la madre con le sue visite; vedendo una copertina lasciata in giro, capì che il figlio di Storno era vivo. La vecchia disse di no, ma si dette subito da fare affinchè il nipote crescesse rapidamente, per magia; gli raccomandò di stare sempre nascosto fra l'erba alta. Il fanciullo cominciò a dare la caccia agli uccelli e imparò la loro lingua. Un giorno notò che la sua ombra era doppia. Allora tirò in alto una freccia che, ricadendo verticalmente, separò i due corpi da cui era formato. Trasformò il fratello in un neonato e si mise ad allevarlo di nascosto; con la scusa che perdeva tutto quello che aveva, riusciva ad ottenere dalla nonna un supplemento di cibo, di vesti e di arnesi da caccia. Alla fine la nonna si accorse che aveva ormai una testa sola ed egli dovette confessare. La vecchia accolse i due fanciulli e li nascose con maggior cura di prima. Tekewas continuava ad assillare la madre che inutilmente le gridava: "Vattene! Hai ucciso i tuoi fratelli. Io sono vecchia: uccidi anche me, se vuoi, ma cessa di tormentarmi. Vattene e lasciami in pace!" Ma quella creatura malvagia aveva rinvenuto le tracce dei bambini. Un giorno questi ferirono un anatra dal collo bianco, la quale promise di informarli della loro situazione a patto che le estraessero la freccia dalla ferita. Fatto questo, l'anatra raccontò ai ragazzi la storia dei loro genitori e li avvertì che la zia li voleva uccidere. Essa viveva ora in un lago, sotto forma di anatra e, quando riprendeva figura umana, i suoi capelli erano lunghi e rossi. Potevano ucciderla se volevano, ma non dovevano dir niente alla nonna che certamente avrebbe impedito la cosa; infatti era dipeso solo da lei se la zia non era stata uccisa e se il loro padre non era stato salvato. I ragazzi decisero di andare a a caccia all'anatra e ottennero dalla nonna una piroga, una scorta di lunghe frecce e un coltello affilato. Un giorno videro sulla superficie dell'acqua dei lunghi capelli rossi e l'orribile testa della zia che li provocava e li minacciava. Essa tentò anche di farli capovolgere appoggiandosi con tutto il suo peso sull'orlo dell'imbarcazione. La nonna udiva le loro grida di terrore ma quelli la rassicuravano: "Non apparteniamo alla terra, lei non potrà farci del male!" Tekewas tentò un'altra volta di capovolgere la piroga ma i ragazzi le tagliarono la testa. L'acqua diventò tutta nera di sangue, e in quel punto lo è ancora. Ributtarono il corpo in una pozza d'acqua circondata da rocce e le dissero: "D'ora in poi non farai più paura. Sarai piccola e debole e della tua carne si dirà che è troppo cattiva per essere mangiata". In quel preciso istante lo spirito della morta volò via sotto forma di un brutto uccello. Poi i ragazzi uccisero una gran quantità di anatre, e mentre la nonna si dava da fare per riporle, chiesero l'aiuto del fuoco, dell'acqua, del legno, degli archi e delle frecce, del pestello, del paniere, dei bastoni per scavare, insomma di tutti gli oggetti domestici. Ma dimenticarono la lesina, la quale rivelò alla vecchia, folle di rabbia per aver trovato sotto la selvaggina la testa mozza della figlia, che i due ragazzi erano fuggiti attraverso un buco vicino al focolare. Questi si erano messi in cammino verso levante, perchè volevano diventare servi del sole. Giunti sulla riva meridionale del lago Tulè, per prima cosa andarono a far visita alla loro zia Anatra, sposa di Serpente (bull-snake), e le insegnarono a non partorire più dalla fronte. Lo stesso fecero con tutti gli altri animali. Poi uccisero lo zio e trasformarono i suoi resti in rocce e serpenti. Proseguendo nel loro viaggio verso est, passarono attraverso tutta una serie di avventure, nel corso delle quali varie località ricevettero la loro configurazione attuale. Strada facendo conversavano: il maggiore diceva che gli sarebbe piaciuto di più servire il sole, il monore preferiva la luna, per passare inosservato. "Ma sì invece-ribatteva l'altro-dovranno vederci sempre, staranno a spiare il nostro arrivo, e saranno contenti quando appariremo". Arrivarono dall'orco Yankùl che aveva due servi, Cornacchia e Pidocchio. Il maggiore lo battè alla lotta e lo uccise. Mutò lui in un uccello rapace, pescatore di pesci morti, e i due servi nelle ripettive bestie di cui portavano il nome. Nonostante le raccomandazioni della loro zia Anatra, per non abbandonare la direzione est che volevano seguire, traversarono certe montagne dove incontrarono un nemico ancor più terribile: Yahyàhaas, il gigante con una gamba sola. Per cinque volte di seguito lo affontarono e lo vinsero, sia nella lotta sia riuscendo a rompere la sua pipa mentre la loro resisteva a tutti i colpi. Alla fine condannarono il gigante a errare eternamente fra le montagne e ad apparire in sogno agli sciamani, divenuti suoi servi. Da parte sua, il gigante li condannò a diventare essi stessi delle apparizioni: due stelle "per cui gli uomini si batteranno, fra l'estate e l'inverno". Infatti, i fratelli si mutarono in stelle che appaiono prima dell'alba alla fine dell'inverno e che annunciano la primavera (Curtin 1, pagine 95-117) >> (Claude Levi-Strauss: "L'uomo nudo"; pagine 50-51-52)
Interpretazione del mito Modoc dei Fratelli Celesti
Questo mito dei gemelli incestuosi trasformati in stelle conosce molte diverse versioni fra le culture native della medesima regione, nello Stato di Washington (tribù SANPOIL e MODOC); ma anche presso gli ALGONCHINI del Canada e gli ESCHIMESI. Le gesta e il contenuto del mito seguono uno schema fondamentale, ma superficialmente i ruoli possono essere capovolti e gli stessi personaggi considerati come buoni in una versione e malvagi in un'altra. LEVI-STRAUSS interpreta questo mito secondo una chiave di lettura puramente antropologica: l'origine dell'incesto e della morte, la complementarietà dei simboli culinari di cui il mito si serve, l'origine dell'ORGANIZZAZIONE SOCIALE DUALISTA presso le comunità indigene del Nord-America che riprendono specularmente quelle esistenti in MELANESIA e INDONESIA (argomento trattato nell'articolo "Esistono le organizzazioni dualiste?", 1956), seguendo uno schema straordinariamente simile. Per "ORGANIZZAZIONE DUALISTA" s'intende l'esistenza di due gruppi sociali distinti, che possono cooperare fra loro o essere rivali, ma che sono, in ogni caso, uniti da una complessa rete di relazioni, di scambi, di diritti e di doveri; si tratta, insomma, di un sistema sociale estremamente complesso, secondo schemi che si possono ben definire "matematici" e dettagliatamente descritto in "ANTROPOLOGIA STRUTTURALE" di LEVI-STRAUSS. L'ORGANIZZAZIONE DUALISTA non è universale, ma presente in diverse comunità tradizionali lontanissime tra loro, come NORD AMERICA e INDONESIA. Il mito dei gemelli divini è quello su cui si fonda la conoscenza dell'origine dell'universo e di tutte le sue strutture fenomeniche basate, appunto, sull'interazione complementare fra elementi opposti. Vi è perciò il tentativo di riprodurre specularmente quest'ordine fondamentale dell'universo, che è alla base dell'armonia e dell'equilibrio dell'esistenza, nell'organizzazione sociale stessa e, a scatole cinesi, progressivamente in tutte le sfacettature della vita individuale, nei sistemi di parentela, nelle tradizioni, fino al sistema fonologico di qualsiasi lingua esistente, distribuito secondo uno schema binario. In questo modo, secondo un sentiero tracciato e sostenuto dal mito dei gemelli, vi è il tentativo di manifestare il macrocosmo nel microcosmo, il grande nel piccolo, aspirando alla perfezione divina per estensione, al di fuori della sfera psicologica e individuale da cui l'armonizzazione degli opposti, in principio, dovrebbe emergere. E' proprio questo tentativo di estendere alla dimensione mediana della collettività le qualità proprie del macrocosmo e dell'autorealizzazione all'origine delle strutture sociali tradizionali complesse. LEVI-STRAUSS individua nella mitologia dei gemelli delle culture nord-americane un sistema "aperto" di ricerca, secondo cui ad ogni sviluppo del mito stesso e ad ogni sua rielaborazione si crea un'ulteriore biforcazione concettuale e, dunque, un'ennesima coppia di gemelli e così all'infinito, secondo uno schema frattale, nell'impossibilità di una "conciliazione" degli opposti ordini di un'unica realtà in seno alla divinità. I gemelli del mito amerindio, secondo lo STRUTTURALISMO di STRAUSS, non costituiscono degli "opposti", ovvero polarità opposte degli aspetti del reale, e perciò non giungono mai ad una fusione. LEVI-STRAUSS considera l'affinità gemellare come un'illusione, qualcosa di impossibile e, dunque, contrario alla concezione trinitaria di altre tradizioni (fra cui la TRINITA' CRISTIANA e la TRIMURTI della FILOSOFIA VEDICA) per cui esiste una forza mediatrice fra le opposizioni che ne permette la convergenza ad un livello superiore, tema in seguito ripreso nel XIX secolo dalla FILOSOFIA HEGELIANA, secondo la quale la successione triadica "TESI-ANTITESI-SINTESI" è in continuo divenire, elevandosi all'infinito mediante questo sviluppo spiraliforme. I gemelli del mito amerindio, secondo l'interpretazione di STRAUSS, si pongono essi stessi nella zona mediana in un rapporto di parità, annullando il potere propulsivo del "mediatore" divino. Detto ciò, dobbiamo porre mente all'analisi di LEVI-STRAUSS senza mai dimenticare il fondamentale pessimismo cosmico dell'autore, ma anche le molte contraddizioni del suo pensiero.
"La bi-unità divina risponde a un bisogno fondamentale dell'essere umano: la reintegrazione dell'uomo nel Cosmo attraverso un'assoluta unificazione; in essa scompaiono gli estremi e si fondono i contrari". (Mircea Eliade: Il mito della reintegrazione-pag.55)
Dal LIBRO DI MANU: "Chi si è affrancato progressivamente da tutti i legami e da tutte le coppie di opposti riposa in Brahman". (Manava-Dhar-masastra VI, 80 sg.).
La trasformazione dei gemelli in stelle nel mito MODOC, per giunta, pone in risalto questa ANALOGIA CON IL MITO GRECO DI CASTORE E POLLUCE; peraltro, le similitudini fra mitologia dei Nativi americani e i miti dell'Antica Grecia non finiscono qui: comprendono una vasta gamma di situazioni, personaggi e significati che non possono non far pensare alla codificazione simbolica di conoscenze ancestrali e universali, avvenuta in un epoca remotissima e per noi, sulla base delle nozioni attuali, inaccessibile.
Il mito Modoc dei Fratelli Celesti e il tema dell'incesto
Il tema dell'incesto (in questo caso tra fratello e sorella Tutats e Tekewas) è ripreso praticamente in tutta la MITOLOGIA GRECA, nella BIBBIA ce ne sono molti esempi come quello di ABRAMO con la sorellastra SARA, di LOT con le figlie, ecc...anche se sia GIUDAISMO che CRISTIANESIMO vietano severamente tale pratica; ma dal mito alla realtà vi è un grande divario, poichè il mito traduce in forma di racconto concetti universali "sacralizzati" in una dimensione superiore, ma non riproducibili nella sfera del contingente, nella vita reale, oppure più semplicemente possono significare delle scelte ammesse in via eccezionale. Nei RIG-VEDA (RV X,10) viene narrato di come la sorella gemella di YAMA (fratello del progenitore dell'umanità, MANU) cercò di sedurlo allo scopo di procreare da lui, come abbiamo letto sopra. Ma c'è sempre stata un'ambivalenza generale nel contrasto alle relazioni incestuose nelle società umane; ad esempio nell'ANTICO EGITTO era comune fra i membri di uno stesso gruppo dinastico, allo scopo di mantenere la purezza della discendenza; il CODICE DI HAMMURABI, una delle più antiche testimonianze di leggi istituite dalla CIVILTA' BABILONESE nel XVIII secolo a.C., puniva l'incesto con la morte. Presso gli INCA l'incesto era praticato fra consanguinei della classe aristocratica e famoso è quello del Re TUPAC YUPANQUI (1430-1475) con una sua sorella. LEVI-STRAUSS, in particolare, considera la proibizione dell'incesto come un passaggio fondamentale dalla condizione naturale alla società organizzata. Senza poi inoltrarci nell'intricato dedalo della letteratura riguardante l'argomento, compreso l'EDIPO RE DI SOFOCLE, interpretato da JUNG come una regressione alla dimensione infantile del materno e dell'indistinto, considerata su un piano simbolico e archetipico; la PSICOANALISI FREUDIANA, al contrario, molto grossolanamente introduce le dinamiche del mito nella vita reale come attrazione del bambino nei confronti del genitore di sesso opposto; interpretazione, quest'ultima, nei suoi dettagli vicina al contesto di una mentalità borghese ottocentesca piuttosto che ad un'imparziale indagine scientifica. In ogni modo, lo stigma dell'incesto rimane uno dei principali assiomi morali dell'intera comunità umana, anche se con evidenti ambiguità. Dal punto di vista scientifico non sono ancora chiare le origini di questo tabù, ma già note dovevano comunque essere, evidentemente fin dalla preistoria, le conseguenze genetiche di questa pratica, vista l'amplificazione di malattie e tare ereditarie causate alla progenie. Dal lato spirituale potrebbe esprimere il desiderio dell'uomo di essere simile agli dèi, ovvero di non sottostare, come i personaggi archetipici dei miti, alle norme che regolano la dimensione umana ordinaria, per cui, ciò che può essere ammesso ad un più alto livello esistenziale e dunque sotto forma di pura astrazione (come indicano le vicende degli esseri divini), non lo può essere nella sfera del contingente, della complessità del reale. I personaggi dei miti, infatti, costituiscono rappresentazioni mentali di processi psichici, puramente interiori o riguardanti il gioco di forze da cui scaturisce l'equilibrio universale nella sua dimensione più profonda. Un esempio potrebbe essere quello dell'innamoramento o dell'atto sessuale, che è la traduzione fisica della reintegrazione dell'aspetto maschile e femminile "nella sfera interiore" dell'individuo e che, dunque, simulato nella realtà contingente ed esteriore si tramuta in un vero e proprio adulterio nei confronti del proprio Sè, del proprio percorso spirituale. Ma il mondo come lo conosciamo necessita la perpetuazione, e determinate forze soprintendono al processo mentale di quest'illusione, ragion per cui gli dèi gemelli, maschio e femmina, come rappresentazioni di questi due elementi psichici da reintegrare, possono attuare l'incesto come metafora della conciliazione spirituale e individuale degli opposti lì dove va in primo luogo ristabilita: nell'interiorità e non nella sfera fisica responsabile della generazione. Ad un livello inferiore, nella realtà materiale, vi è la necessità dell'accoppiamento fisico, ma quando i due gemelli divini saranno reintegrati nella sfera mentale, questa distorsione percettiva svanirà e l'uomo accederà ad un ordine esistenziale superiore, potrà vedere la realtà oltre il velo delle chimere. In questo quadro la pratica incestuosa fra le DINASTIE EGIZIE e di altre antiche civiltà potrebbe simboleggiare, oltre al più prosaico tema del sangue, un'imitazione degli episodi mitici, rendendo i membri della stirpe più affini alle divinità, mentre per le altre classi sociali il divieto è avallato dalla naturale repulsione verso questo atto e dalle sue conseguenze genetiche. I gemelli divini dunque si accoppiano (come nel mito MODOC qui sopra) dopo essere stati divisi, per generare il mondo e simboleggiano le due polarità maschile-femminile nella loro reintegrazione fisica nel mondo fenomenico e psichica nella sfera interiore. L'innamoramento, al contrario, nella diversificazione genetica necessaria al benessere della specie, presuppone sempre un'espansione e quindi la ricerca di qualcosa d'altro, di complementare e, allo stesso tempo, estraneo e per lo più sconosciuto: più è lontano dal nostro universo abitudinario, più si avvicina al nostro desiderio. Paradossalmente però, l'espansione al mondo esteriore può avvenire solo introspettivamente, grazie ad una "contrazione", ossia al ripiegamento dell'anima su sè stessa grazie alla conciliazione delle forze opposte (gemelli complementari) nella pura sfera individuale: maschile-femminile; amore-odio; attrazione-repulsione; corpo-mente; invidia-ammirazione, ecc...fino a raggiungere una condizione spirituale di neutralità, tale da permettere l'osservazione della realtà da una prospettiva più elevata e libera da condizionamenti. In conclusione, che siano dello stesso sesso oppure maschio e femmina, i gemelli si pongono mitologicamente nell'ambito degli archetipi della dualità, anzi, lo sono per antonomasia.
Immagine: accampamento indiano, olio su tela dell'artista statunitense contemporaneo Colt Idol (Montana).
GIAPPONE: I GEMELLI DIVINI IZANAGI E IZANAMI
IZANAGI e IZANAMI sono i due dèi gemelli, maschio e femmina, della mitologia shintoista giapponese e i loro nomi significano: "colui che invita" (Izanagi) e "Colei che invita" (Izanami). Sono le due divinità della Creazione e la loro storia è narrata nel più antico testo di mitologia giapponese: il "Kojiki" ("Registro delle cose antiche"): una collezione di miti orali, compilata nel 712 d.C. su supporto di "washi" (carta di gelso) dall'insegnante di corte Ono Yasumaro, secondo un progetto del sovrano Tenmu (l'uso della carta è stato introdotto dalla Cina nel VII secolo d.C.). Non è un'opera storiografica come il Nihonshoki (terminato nel 720 d.C. incentrato sugli eventi storici del Giappone), ma narra di quando i kami (dèi) Izanagi e Izanami crearono il mondo dal caos e termina con l'era dell'imperatore Suiko (628 d.C.). La religione shintoista alla quale appartengono questi miti è nata in Giappone circa 2000 anni fa e nella sua epoca più antica le divinità principali erano Izanagi e Izanami, creatori delle quattro isole giapponesi, e la dea del sole Amaterasu. Si tratta di un culto tipicamente animista, privo di testi sacri di riferimento e di autorità sacerdotali. Izanagi, assieme alla sua sorella gemella, è il dio creatore e padre di tutti gli dèi. La dea del sole Amaterasu nacque dall'occhio sinistro di Izanagi dopo il suo viaggio nel mondo sotterraneo ed egli le affidò il governo delle sfere celestiali.
LA LEGGENDA GIAPPONESE DI IZANAGI e IZANAMI
Prima che il mondo fosse creato dai gemelli Izanagi e Izanami non esisteva nè cielo nè terra e tutto l'universo era un'ammasso confuso e senza limiti. Da questa nebbia primordiale emerse per primo l'Altopiano del Paradiso (“Takamagahara”), dove risiedevano le prime invisibili divinità della creazione, chiamate "le tre divinità creatrici": lo Spirito Maestro del Centro del Cielo, l'Augusto Spirito Meravigliosamente Produttore e l'Antenato Divino Meravigliosamente Produttore (ci troviamo quindi di fronte ad una triade). La terra primordiale era simile ad una vasta distesa liquida da cui emergevano dei fusti di canna e questo scenario durò per un lungo lasso di tempo, finchè nacquero i gemelli Izanagi e Izanami, maschio e femmina, i quali crearono le isole del Giappone ritirando la loro lancia dopo aver agitato le acque dell'oceano primordiale. I due fratelli decisero così di sposarsi sull'isola di Onogoro-shima, costruirono la loro casa e diedero inizio alla cerimonia nuziale, che doveva essere eseguita secondo dettami precisi, uno dei quali imponeva di girare attorno ad un fusto in direzioni opposte: la dea a destra, il dio a sinistra. Ma Izanami fece un errore fatale, rivolgendo la parola al fratello quando si incrociò con lui durante il rituale, dicendo "Che bel ragazzo!" e sentendosi rispondere "Che bella ragazza!"; a causa di ciò diede alla luce un figlio deforme: il dio Hiruko, abbandonato dai genitori in una cesta, affidato ai capricci del mare. Hiruko divenne poi il dio dei pescatori. Un'isola di schiuma fu il secondo "figlio" della coppia, ma nemmeno questo corrispondeva alle loro aspettative, allora chiesero ai sette dèi della fortuna il motivo di tanta difficoltà. Fu risposto loro che la donna non avrebbe dovuto rivolgere la parola per prima, per questo la loro progenie continuava ad apparire deforme. Allora il rituale venne eseguito di nuovo e questa volta fu Izanagi a rivolgere la parola per primo alla sorella: "Che bella ragazza!"; "Che bel ragazzo!" lei poi rispose. Realizzato alla perfezione il rituale, i due sposi iniziarono a creare dal nulla tutto il pantheon degli dèi, comprese le otto più importanti isole giapponesi: Awaji, Shikoku, Oki, Tsukushi (Kyushu), Iki, Tsu, Sado e Oyamato. Essendo lo shintoismo un culto animista, si contano più di 800 divnità legate ad ogni fenomeno naturale personificato. Fra i figli più importanti generati dai gemelli vi fu il dio del fuoco, Kagutsuchi; il dio delle montagne, Oho-yama-tsu-mi; il dio degli alberi, Kuku-no-shi; il dio del mare, Oho-wata-tsu-mi. Ma la nascita del dio del fuoco causò a Izanami una terribile sofferenza per le bruciature, fino alla morte. Disperato, il fratello Izanagi dilaniò con la sua spada il dio del fuoco e dai suoi frammenti presero vita moltissimi altri esseri divini. Izanagi, che non riuscì mai a rassegnarsi per la perdita dell'amata compagna, decise di andare in cerca di lei nelle profondità degli Inferi, chiamati Yomi (luogo della radici o anche terra cava) ma, quando la trovò, non la potè salvare perchè già contaminata dagli alimenti dell'oltretomba e, dunque, non poteva riemergere nel mondo dei viventi. All'implorazione di Izanagi di restituire la sua sposa, gli dèi acconsentirono, dicendogli che ci sarebbe voluto un lungo processo di rigenerazione e, nel frattempo, Izanami si fece promettere che non avrebbe mai dovuto vederla fintanto che la sua catarsi non fosse completa. Ma Izanagi non potè resistere e, alla fine, posò gli occhi sul suo corpo in decomposizione, causandole una grande afflizione. Oltre a ciò, sopraggiunsero le otto divinità del Tuono con un seguito di 1500 cavalieri infernali che cacciarono Izanagi dal Regno dell'Oltretomba; Izanagi, però, reagì scagliando un bastone contro la loro schiera e da questo atto nacquero altri due dèi gemelli, maschi e femmina, detti "Dosojin", protettori dei sentieri e dei villaggi. Dopo l'emersione da quel luogo tenebroso e terrificante, Izanagi si dovette, con un rituale, purificare nelle acque del fiume Woto per liberarsi dalle contaminazioni di quel luogo; durante questo bagno nacquero dai suoi gesti altre divinità: la dea del sole Amaterasu quando si lavò l'occhio sinistro; il dio della luna Tsuky-yomi quando si purificò l'occhio destro; il dio della tempesta nacque dal suo naso; il dio del vento, Shina-tsu-hiko, fu emanato dal suo respiro. Dalle sue vesti, poi, sorsero altri dodici dèi.
SIMILITUDINI FRA IL MITO GIAPPONESE DI IZANAGI E IZANAMI, IL MITO MAYA DI ITZAMMA E IXCHEL, IL MITO GRECO DI ORFEO E EURIDICE, IL MITO VEDICO DI SAVITRI E SATYAVAN E IL RACCONTO BIBLICO DELLA MOGLIE DI LOT:
Nei prossimi quattro paragrafi vengono messi in luce i parallelismi fra i cinque miti menzionati sopra riguardanti alcune antiche tradizioni lontanissime fra loro.
IL MITO MAYA DI ITZAMMA E IXCHEL E IL MITO GIAPPONESE DI IZANAGI E IZANAMI
Sulle similitudini del mito della creazione giapponese narrato sopra con i miti greci e i racconti biblici la maggior parte degli studiosi sono abbastanza d'accordo; peraltro, come ognuno sa, quello del VIAGGIO AGLI INFERI è un tema universale e ci vorrebbe un'enciclopedia per narrare le avventure nel mondo sotterraneo di tutti gli eroi, a partire dall'Antica Grecia, all'Egitto, alla civiltà Maya, ai miti nordici, alle tradizioni sciamaniche e via dicendo, fino alla storia dei gemelli divini nipponici di cui ora ci occupiamo. Oltre al parallelismo evidente con la leggenda di ORFEO e EURIDICE, il viaggio agli Inferi del dio giapponese IZANAGI in cerca della sua sposa è analogo a quello maya di ITZAMMA (padre di tutti gli dèi) e IXCHEL (dea della medicina e della luna) e a quello induista della principessa SAVITRI e del principe SATYAVAN (Savitri negli scritti vedici è uno degli avatar del sole). Si noterà inoltre la somiglianza tra i nomi degli dèi gemelli giapponesi, IZANAGI e IZANAMI, e quello del dio maya ITZAMMA (o Itzamna). "IZANAGI" e "IZANAMI" significano: "Colui che invita" e "Colei che invita"; "ITZAMMA" in lingua maya yucateca significa "caimano" o "lucertola"; la sillaba iniziale "Itz" ha molti svariati sgnificati, come "divinazione", "rugiada", "predizione", "sostanza delle nuvole", ecc...Nel MITO MAYA il dio del sole ITZAMMA e la dea IXCHEL erano amanti, ma il nonno di IXCHEL era contrario a questa relazione e uccise la nipote con un fulmine. IXCHEL rimase nel Regno dei Morti per 183 giorni, infine si risvegliò seguendo di nuovo il sole nelle sue alte dimore. Ma anche il dio del sole, ITZAMMA, divenne geloso di lei, pensando che fosse invaghita di STELLA DEL MATTINO (Venere) e la fece precipitare giù in basso, lontano dalla sua dimora celeste; fu allora che IXCHEL divenne la luna, e non fu più vista a fianco del sole, alternandosi notte e giorno senza mai incontrarsi. Questa disgiunzione ricorda la vicenda di Izanagi e Izanami nel loro rituale nuziale, quando dovettero girare intorno a un palo e la dea rivolse per prima la parola a Izanagi, rompendo le regole e mettendo, perciò, al mondo figli deformi. L'allontanamento di IXCHEL dalle sfere celesti e la maledizione dei gemelli giapponesi con la loro prole malata sono da considerare entrambe nell'ambito della rottura di un equilibrio cosmico, indicata da gesti simbolici. Nel caso del mito giapponese, il giro intorno all'asta e il fatto che la donna rivolse per prima l'attenzione all'uomo dicendo "Che bel ragazzo!", può simboleggiare un capovolgmento innaturale di ruoli fra maschile e femminile (inteso in senso lato), per cui la "proiezione" del potere vivificante deve giungere in principio dal lato maschile (principio-positivo), mentre l'elemento femminile (principio-negativo nel senso di "coppa", di forza attrattiva) deve operare in secondo luogo, su impulso del primo fattore: ciò avviene in ogni campo del reale. Nel MITO MAYA la dea IXCHEL (che all'inizio dimorava presso il sole) fu ammaliata da VENERE; Venere (corrispondente alla STELLA DEL MATTINO nella mitologia maya-tolteca come in quella greca) secondo l'astronomia maya era STELLA DEL MATTINO per 236 giorni e STELLA DELLA SERA per 255 giorni; nel successivo mito azteco rappresentò perciò due divinità gemelle: QUETZACOATL nella STELLA DEL MATTINO e XOLOTL nella STELLA DELLA SERA; avendo subìto il suo fascino (ovvero il fascino dei gemelli e della dualità) IXCHEL, come componente femminile, venne separata dal suo compagno, il sole (principio maschile) e così rappresentando l'una la notte e l'altro il giorno furono destinati a non incontrarsi mai. Ma i gemelli di VENERE sono legati da un rapporto di affinità (e in questo caso si pongono proprio nella zona mediana di uno schema trinitario, come ipotizzato da Levi-Strauss nella descrizione precedente): XOLOTL era figlio di una vergine e rappresentava il lato oscuro di VENERE come accompagnatore dei defunti verso il Regno dei Morti, "Mictlan"; KUKULCAN (Quetzacoatl in lingua azteca) era il dio-serpente-piumato, il Re fatto dio, dotato di un potere magico e trasmutativo. Vi è dunque la coppia sole-luna con funzione fissa nell'ambito del macrocosmo e la coppia gemellare QUETZACOATL-XOLOTL nella sfera spirituale con funzione emancipatrice, che dissolve il tracciato della scissione per ricomporre, ad un livello superiore e spirituale, le opposizioni interiori. Non per nulla il SERPENTE PIUMATO nel mito maya è apportatore di conoscenza e identificato con l'anima umana. Sotto questo aspetto si ripresenta la duplice essenza dei gemelli, di disgiunzione-unione. I gemelli di VENERE nel mito maya si pongono come fautori di scissione duale creatrice del mondo fenomenico (sole-luna, giorno-notte e via dicendo) e, al contempo, come forze armonizzanti nel condurre alla riconciliazione, che a livello macrocosmico significa la perfetta interazione delle forze opposte grazie alla quale esiste l'universo (ITZAMMA-IXCHEL, Sole-Luna); a livello spirituale la reintegrazione dell'aspetto maschile-femminile e delle altre opposizioni interiori.
Immagine: raffigurazione del dio maya della morte "Kisin" (detto anche "Ah Puc") in due versioni, maschile e femminile. Il dio della morte regnava nel mondo degli Inferi e puniva le anime dei defunti. Dal Codice di Dresda: manoscritto originale della civiltà Maya, fra i pochissimi sopravvissuti, che venivano custoditi nelle biblioteche dei templi. Risale al XIII secolo d.C. e venne riscoperto nella città di Dresda nel 1739. Comprende 74 pagine con contenuti astronomici, mitologici e cerimoniali. Le pagine sono di corteccia di ficus, battuta e trattata fino a ricavarne fogli sottili, successivamente dipinti e scritti in caratteri glifici.
IL MITO VEDICO DI SAVITRI E SATYAVAN E IL MITO GIAPPONESE DI IZANAGI E IZANAMI
Nel MAHABARATA, poema indiano del IV secolo a.C., viene narrata la storia di un Re, ASWAPATI (Signore dei cavalli), il cui regno si trovava nell'attuale Afghanistan; questo sovrano non potè avere discendenza rivolgendo perciò molte invocazioni agli dèi, fino a che gli apparve la dea Savitri, consorte di Brahma, che gli annunciò la nascita di una figlia alla quale pose il nome della dea stessa. Quando la principessa raggiunse l'età da marito, si mise in viaggio per cercare un compagno visitando regni e villaggi, vicini e lontani, finchè giunse ad un eremo in cui dimoravano molti uomini saggi in disprezzo del mondo; fra questi sapienti vi era Dumyatsena, un Re detronizzato che trovò riparo nel bosco assieme alla moglie e al figlio Satyavan. Savitri scelse Satyavan come marito, ma incontrò il disappunto del padre, che fu a sua volta consigliato dal saggio Narada, che le consigliò di trovare un altro compagno. Alla fine, però, furono tutti d'accordo sulla decisione di Savitri, viste le qualità morali, il bell'aspetto e l'intelligenza del futuro sposo; la ragazza abbandonò i propri agi regali e, indossate umili vesti, accettò la vita ritirata ed austera della comunità alla quale il marito apparteneva. Ma il saggio consigliere di suo padre, Narada, le aveva preannunciato la morte di Satyavan dopo un anno dalle nozze e lei non riusciva a fare a meno di pensarci; decise così di sottoporsi al digiuno terminando il suo voto agli dèi proprio il giorno della presunta morte del marito. Un giorno andò a tagliare le legna assieme a Satyavan e, quando scese la sera, il marito stanco poggiò il capo su di lei e morì. Il dio della morte Yama andò a raccogliere l'anima del defunto, ma Savitri lo seguì, pronunciando dietro a lui una serie di omelie sulla virtù e la retta condotta esistenziale che impressionarono la divinità, tanto che Yama le promise qualsiasi dono per ringraziarla, tranne la vita di Satyavan. Savitri chiese la guarigione del vecchio suocero dalla cecità e la restituzione del suo regno, e così fu. Poi chiese di poter mettere al mondo almeno cento figli di Satyavan, ma Yama accettò solo parzialmente la richiesta, ossia quella relativa a "madre di cento figli", ma escluse che potessero essere generati da Satyavan. Ma Yama commise un "errore" dopo che Savitri recitò su richiesta per lui altre omelie, allo scopo di avere altri favori: si dimenticò di pronunciare la frase "tranne che per la vita di tuo marito"; così Savitri potè chiedere la resurrezione di Satyavan e le fu concessa. Il marito fece ritorno dal Regno dei Morti con le benedizioni del dio Yama.
Interpretazione del mito vedico di Savitri e Satyavan
In questo caso gli avvenimenti sono diversi, ma di analogo al mito giapponese di IZANAGI e IZANAMI vi è il viaggio agli Inferi come tema imprescindibile di ogni mitologia. In entrambi i miti (indiano e giapponese) il messaggio finale è: a livello spirituale la vittoria e la forza inarrestabile del sentimento d'unione sulla morte; a livello materiale la forza inarrestabile del risveglio della natura dopo la stagione invernale e, per esteso, l'inevitabile fenomenologizzazione del mondo mediante un richiamo essenzialmente psichico (sulle orme del paradigma ermetico secondo cui l'universo è mentale): il sentimento d'unione cosciente nell'uomo, incosciente nella natura, necessario a dare impulso alla vita in ogni suo aspetto.
IL MITO GRECO DI ORFEO E EURIDICE E IL MITO GIAPPONESE DI IZANAGI E IZANAMI
Lo stesso significato di base troviamo nel mito greco di Orfeo ed Euridice, inserito nella più vasta narrazione delle leggende orfiche. Figlio della musa Calliope e di Apollo, Orfeo era il poeta e incantatore per antonomasia, mentre Euridice era una ninfa delle Amadriadi: figure femminili mitologiche dimoranti all'interno degli alberi. Al suono della lira di Orfeo tutta la natura subiva un'incontenibile seduzione, al punto che gli alberi si flettevano e i fiumi deviavano dal loro corso. Unitosi agli Argonauti di Giasone nell'avventura alla ricerca del Vello d'Oro, al ritorno dalla missione Orfeo si sposa con Euridice. Ma l'idillio de due sposi fu destinato a durare poco: Euridice venne morsa al tallone da un serpente e morì. Orfeo decide di recarsi agli Inferi per incontrare la sua sposa, chiedendo agli dèi dell'Ade di poter portare Euridice con sè, nel mondo dei vivi, così cantò e suonò animato da una tale passione che Persefone (dea della primavera e regina dell'oltretomba), il cane Cerbero (guardiano infernale) e perfino le Furie furono commossi dalle sue struggenti melodie, al punto da concedergli di riportare in superficie Euridice, a patto, però, che non si fosse mai voltato indietro a guardarla, pena il ritorno di Euridice nel mondo dei defunti. Ma Orfeo, quando quasi erano giunti in superficie, non potè resistere e, per accertarsi che la sua sposa fosse accanto a lui, si voltò facendo scomparire Euridice nell'abisso. Nella morsa di un'insanabile disperazione, Orfeo si mise così a vagare su tutta la terra, cercando di portare in vita un irragiungibile passato, deciso a non innamorarsi mai più di alcun'altra donna. Le Menadi (Baccanti) che erano invaghite di lui, si vendicarono del suo rifiuto facendolo a pezzi e gettandolo nel fiume Ebro; in questo tragico modo, Orfeo potè ricongiungersi ad Euridice nel mondo sotterraneo.
IL RACCONTO BIBLICO DELLA MOGLIE DI LOT E IL MITO GIAPPONESE DI IZANAGI E IZANAMI
I due miti (greco e giapponese) narrati sopra possono trovare un importante parallelismo nella storia biblica di LOT in Genesi-19. Quando Dio decise di distruggere SODOMA mandò da LOT (patriarca nipote di ABRAMO) due angeli ad avvertirlo in modo che potesse fuggire assieme alla sua famiglia. I viziosi abitanti di SODOMA, alla vista degli ospiti di LOT, furono presi dal desiderio di unirsi carnalmente a loro, ma il patriarca si oppose strenuamente a ciò, offrendo le sue figlie vergini purchè i depravati abitanti di SODOMA non si avvicinassero agli ospiti divini. Nonostante questo, i sodomiti cercarono di sfondare la porta d'ingresso per raggiungere l'oggetto del loro desiderio, ma vennero accecati dall'abbagliante luce che gli angeli proiettarono contro di loro. In seguito LOT, la moglie e le figlie abbandonarono la casa per fuggire dalla città, ma l'ordine di non voltarsi mai a guardare indietro per vederne la distruzione mediante una pioggia di fuoco e zolfo, fu trasgredito dalla moglie, che fu immediatamente trasformata in una statua di sale.
NON VOLTARTI MAI INDIETRO: interpretazione dei miti di ORFEO e EURIDICE, IZANAGI e IZANAMI e del racconto biblico della moglie di LOT
Anche il mito greco di ORFEO ed EURIDICE rispecchia quello giapponese di IZANAGI e IZANAMI: il viaggio agli Inferi per recuperare l'amata, e soprattutto, il patto, poi infranto in entrambi i casi, di non poggiare lo sguardo su di lei finchè l'opera di emersione non fosse compiuta. Nel mito giapponese IZANAMI (come narrato sopra) prima di riemergere dal mondo degli Inferi si fece promettere dal compagno di non poggiare mai lo sguardo su di lei, pena il fatto che l'avrebbe di nuovo perduta. Idem riguardo il mito greco di ORFEO e EURIDICE: ORFEO non avrebbe dovuto voltarsi a guardare EURIDICE prima di aver raggiunto la luce del mondo in superficie. Entrame le coppie, nei due miti, rappresentano gli aspetti maschile-femminile, rispettivamente spirito e anima di un'unica entità individuale. IZANAGI e ORFEO si recano agli Inferi a recuperare la propria anima (l'amata): rispettivamente IZANAMI ed EURIDICE. Quando stanno per terminare l'opera di trasmutazione alchemica, dopo aver convinto le forze infere a non intralciare il loro percorso e sulle soglie dell'illuminazione (come emersione simbolica alla realtà di superficie) la loro mente viene rapita dal dubbio e dalla mancanza di fede nelle proprie conquiste (le ombre con cui l'inconscio reagisce per cercare di riportarci alla condizione precedente).
Per quel che riguarda il racconto biblico della MOGLIE DI LOT trasformata in una statua di sale, può essere interpretato come una "cristallizzazione" dell'anima in una condizione sterile, che non può proiettarsi al futuro e nemmeno ritornare al passato; ciò significa che la MOGLIE DI LOT rimpiangeva in qualche modo la condizione precedente e provava dispiacere per la distruzione di SODOMA, ponendosi in una situazione di stallo, un punto mediano fra passato e futuro in cui l'anima non può agire nè in una direzione, nè nell'altra. Nella prospettiva alchemica il sale è identificato con l'anima (o meglio, con i suoi costituenti fissi), mentre lo zolfo con lo spirito. Lo psicanalista JAMES HILLMANN (1926-2011) così interpreta l'episodio biblico:
"Paradigma del "guardare indietro" – del ricordare – è la storia della moglie di Lot. ("Lot" e "moglie di Lot" erano espressioni usate in alchimia per indicare il sale: vedi il Dizionario di Johnson). Poiché non seppe trattenersi dal guardare indietro alle rovine di Sodoma, dalla cui distruzione erano stati salvati, la moglie di Lot fu trasformata in una statua di sale. I commentatori ebraici dicono che fu l’amore materno a indurla a guardare indietro per accertarsi che le figlie sposate li seguissero; e anche i commentari cristiani al passo di Luca (Lc, 17,32) vedono l’origine del suo gesto nel riaffacciarsi alla mente di familiari e parenti, in un personalismo degli affetti. Evidentemente, le fissazioni familiari sono a loro volta miniere di sale. Le delusioni, gli affanni, i bruciori dell’amore che costellano il complesso materno (le serate a sfogliare l’album delle fotografie, i pegni sentimentali) sono modi in cui la psiche produce sale, rivolgendosi nuovamente agli eventi per volgerli in esperienze.
Il pericolo in questi casi è sempre la fissazione, fissazione al ricordo, al trauma infantile, o a una nozione letteralizzata e personalizzata dell’esperienza stessa: «Io sono la mia esperienza. Paracelso infatti definì il sale il principio di fissazione". ("Fuochi blu", James Hillmann)
MAORI: IL MITO DEI GEMELLI TRASFORMATI IN COSTELLAZIONE
La mitologia dei Maori della Nuova Zelanda narra di due gemelli mortali talmente indipendenti nell'armonia della loro relazione da rinunciare a qualsiasi contatto con il mondo, avendo edificato per sè stessi, insieme, un contesto perfetto. I genitori, preoccupati per il loro rifiuto di avere relazioni sociali con altri bambini, complottarono per dividerli; ma i gemelli, ascoltata la loro conversazione, fuggirono con una barca facendo approdo sempre in un'isola diversa. Un giorno giunsero a Thaiti e lì si nascosero fra i monti. La madre li inseguì fino al loro rifugio, ma essi, prima di essere raggiunti, riuscirono a scalare una grande montagna e, giunti in cima, si lanciarono in volo formando la COSTELLAZIONE DEI GEMELLI, rimanendo, in tal modo, uniti per sempre.
Immagine: roccia scolpita con raffigurazione sdoppiata di "Tupuna" (Antenati Guardiani dellla tradizione maori); altezza: 14 metri; completata nel 1980. Mine Bay, lago Taupo, Nuova Zelanda. Opera dell'artista maori Matahi Whakataka Brightwell.
MITO MAORI DELLA CREAZIONE
A questo punto, vale la pena narrare anche il mito maori della creazione del mondo. Nella cultura Maori (popolazione polinesiana stanziata in Nuova Zelanda) il mito dei gemelli è radicato nella consapevolezza della profonda connessione di ogni elemento dell'universo visibile. I gemelli rappresentano l'unione del mondo fisico con la sfera spirituale, sono emblema di protezione e guida; nacquero dal dio del cielo, Rangi, e dalla dea della terra, Papa, i loro nomi sono Tane Mahuta e Tangaroa e furono proprio loro a separare i genitori, terra e cielo, dal loro abbraccio per la creazione del mondo. La coppia primordiale della leggenda maori sono RANGINUI (il dio del cielo) e PAPATUANUKU (la dea della terra), che all'inizio erano fusi in un perenne abbraccio; ebbero settanta figli, costretti a vivere nell'oscurità per l'assenza dello spazio intermedio. Dopo moltissimo tempo in cui vissero nell'oscurità in spazi angusti, i figli iniziarono ad immaginare un mondo aperto, illuminato dal sole, e molti di loro provarono a separare i genitori. Rongo, il dio dell'agricoltura, Tangaroa, il dio del mare, Haumia-tiketike, dio del cibo...tutte le divinità, una dopo l'altra, cercarono di dividere il cielo e la terra, ma non ci riuscirono; l'impresa venne realizzata dal dio degli alberi, degli uccelli e delle foreste: Tane. Mentre tutti gli altri cercavano di separare Rangi e Papa spingendo con mani e braccia, Tane si stese sul corpo della madre spingendo l'elemento celeste con gambe e piedi, fino a che essi si divisero permettendo la generazione dei popoli, dello spazio, dell'aria e della luce sulla superficie della dimensione intermedia. Da allora, le lacrime di Rangi desideroso di ricongiungersi alla sua sposa scendono in forma di pioggia; il pianto di Papa per la nostalgia di Rangi appare come nebbia mattutina.
Costellazione dei Gemelli: mitologie a confronto
Innanzitutto, è molto significativo il parallelismo della connessione dei gemelli con una costellazione nella MITOLOGIA MAORI, nella MITOLOGIA GRECA e dei nativi MODOC del Nord-America, che unisce rispettivamente Oceania, Europa e Nuovo Mondo chiudendosi ad anello attraverso tradizioni che dovrebbero essere aliene fra loro, se considerate sotto la luce delle relazioni fisiche fra i popoli che, in questo caso, dovrebbero essere avvenute in un'epoca talmente remota da non poter più essere afferrata attraverso le testimonianze archeologiche, forse fissata sotto i messaggi ermetici di leggende orali che, nell'arco di migliaia, o forse di decine di migliaia di anni, hanno revisionato le narrazioni originali secondo le esigenze e la mentalità delle varie epoche, lasciando comunque trapelare uno schema fondamentale inalterabile e distinguibile solo ad una notevole profondità, liberandolo dagli elementi transitori, legati all'epoca e alle condizioni ambientali e sociali di determinate comunità. Nel mito maori dei gemelli mortali trasformati in stelle possiamo cogliere l'elemento dell'armonizzazione degli opposti (gemelli) nella più profonda dimensione interiore; i due fratelli sono all'inizio mortali, ma la loro armonizzazione e la coscienza realizzata che ne scaturisce, avente come conseguenza l'indipendenza dal mondo dei fenomeni transitori (interpretato dai genitori) li rende immortali, trasmormandoli in stelle; sono riusciti, infatti, a sottrarsi alle lusinghe (inseguimento) della futilità, incarnata dai genitori, librandosi in volo dopo aver attraversato foreste e scalato una montagna (superamento iniziatico delle prove); tutto si svolge, come in ogni mito, all'interno della psiche umana e nulla accade all'esterno se non mediante proiezione.
CONCLUSIONE
Siamo giunti al termine di questa breve antologia sul mito universale dei gemelli, connesso al principio di dualità che sostiene e muove l'universo nei suoi processi fisici e metafisici, dietro il quale si nasconde il simbolo dell'ambivalenza di tutte le cose. Esporrò ora una tesi (quella, a mio avviso, più attendibile) sull'origine dell'universo e dell'impulso espansivo della coscienza. La dualità nella dimensione psichica intesse il velo di Maya che vincola l'uomo a un falso destino e, nel contempo, genera lo stimolo necessario al suo sviluppo come entità autocosciente e libera da condizionamenti esterni ed intrusioni mentali. Attraversare e superare la dualità come conflitto interiore e come forza separativa, costituisce un percorso imprescindibile per il raggiungimento di una visione totalizzante della realtà, in una prospettiva elevata esente da limitazioni e false convinzioni. In poche parole: il percorso psicologico indicato dal mito dei Gemelli come aspetti opposti nell'interiorità umana, conduce al superamento di quest'apparente dissonanza e all'integrazione delle strutture psichiche, in vista di una profonda trasmutazione destinata a segnare il passaggio dalla condizione adolescenziale (Prometeo incatenato) a quella adulta (Prometeo liberato). Potrebbe sembrare un epilogo ovvio nel corso dell'esistenza, se non dovessimo premettere che la psiche dell'uomo medio, che non ha mai coltivato le facoltà intellettuali nè tanto meno quelle spirituali, si arresta solitamente ad un'età di dieci anni per tutto il corso della vita. Questo viaggio mitico attraverso il mondo degli dèi e il regno degli Inferi, l'aspetto maschile e quello femminile, l'oscurità e la luce, ci svela un percorso evolutivo che conduce all'illuminazione come massima espressione costruttiva ed armoniosa di sè stessi. L'apoteosi dei Gemelli divini trasformati in stelle nel mito di CASTORE e POLLUCE e in quello MODOC del Nord America indica in modo eloquente la transizione da una fase all'altra, da una condizione scissa e disarmonica all'autorealizzazione spirituale. La conciliazione dei gemelli interiori come elementi apparentemente opposti costituisce un ponte fra la dimensione umana e quella divina. I miti che si concludono con il fratricidio, ossia l'uccisione metaforica di uno dei gemelli da parte del fratello, sono sempre indicatori di un passaggio da una condizione all'altra, mediante un percorso di individuazione preceduto da una perdita iniziale, allo scopo di trasformare una beatitudine incosciente (Abele) in un appagamento esistenziale consapevole, oppure come dinamiche essenziali al passaggio dal caos all'ordine cosmico, come Seth e Osiride in Egitto e Nanahuatzin e Tecciztecatl nella civiltà Azteca. Sostanzialmente, i miti dei gemelli divini simboleggiano l'inizio di un percorso o la sua apoteosi, il passaggio dal principio astratto alla sostanza, l'azione dei campi morfogenetici che accompagnano gli organismi verso organizzazioni sempre più complesse di forze opposte e così via ad ogni ambito esistenziale fino ai più alti vertici dell'intelletto e dello spirito. Il "due", infatti, come cifra creativa, genera magneticamente l'impulso evolutivo che produce il "tre", ossia la TRINITA' come unione delle tre persone divine nella presenza di Dio sulla terra. Nell'accezione dell'evoluzione interiore la TRINITA' indica la realizzazione spirituale; più estesamente è il principo evolutivo che si trova dentro tutto ciò che esiste conducendolo al proprio compimento come Dio manifestato nella materia. Come il due simboleggia la tensione creativa degli opposti, il tre che da quest'ultima scaturisce, è la via definitiva alla manifestazione.
Ma da dove origina il lungo percorso a tappe verso la creazione di forme di vita sempre più evolute e coscienti? Per comprendere questo dobbiamo compiere un viaggio a ritroso fino alla primigenia tensione centrifuga generatasi in uno spazio immanifesto, dove ancora non esiste alcuna forma di coscienza e nessuna dualità, ma soltanto un automatico impulso espansivo, una spinta centrifuga dettata da necessità. Gradualmente, da questa pulsazione primordiale si generano le prime forme della materia cosmica sotto l'azione duale e triadica e via via espandendosi verso manifestazioni sempre più complesse, fino all'apparizione della divinità suprema che accoglie in sè tutti i frutti migliori degli stadi più alti della manifestazione spirituale. Nulla, infatti, a nostro avviso, precipita dall'alto per chi sa quale insano impulso, ma tutto si genera e si emancipa dal basso, in miliardi di esseri, fino alla creazione futura della divinità. L'anima, in base a queste premesse, "emerge" proprio dal caos, attraversa gli stadi inferiori dominati dagli automatismi mentali, fino a raggiungere la propria emancipazione (integrazione dopo integrazione degli elementi opposti) nell'autorealizzazione, ossia nella costruzione del vero Sè: il destino futuro che attrae il presente. La divinità è nel futuro, ma al di là dello spazio e del tempo essa già esiste e crea una trazione nel presente attraverso lo sviluppo della coscienza e la progressiva conciliazione dei gemelli interiori. Tutto ciò è paradossale e la nostra logica va in frantumi come di fronte alle leggi della fisica quantistica, ma pensiamo alla concezione ambivalente del dio Itzamma (padre di tutti gli dèi) nella cosmologia maya, rappresentato sugli altari monolitici di pietra a guisa di Giano bifronte: su un lato come orco e sul lato opposto come divinità antropomorfa equiparabile ad un'immagine di Buddha seduto a gambe incrociate. Le raffigurazioni di Itzamma in queste opere monumentali indicano la fondamentale ambivalenza divina, il passaggio dalla materia grezza (orco) all'opera suprema (Dio) incarnata, in tal caso (e presso tutte le antiche civiltà) sulla terra dalla figura del Re.
Immagine: relazione sul "Blocco-zoomorfo-P"-Monumento-16 della città maya di Quiriguà, Guatemala. Il monolito in arenaria, alto 2 metri e lungo 3,5 metri, datato 795 d.C., raffigura da un lato il Mostro Cosmico come il dio universale, Itzamma, nella sua accezione involuta (o emergente), sul lato opposto compare l'immagine del sovrano come incarnazione divina (la divinità nella sua polarità superiore, o "futura").Poichè lo sviluppo della conoscenza e della ricerca interiore consiste nella progressiva correzione degli errori, le individualità che seguono questo cammino divengono sempre più simili fra loro confluendo in una più grande unità di coscienza ad uno stadio più puro, fino a divenire assolutamente puro perchè ormai libero da ogni identificazione fisica e mentale dell'universo nella dimensione del divenire e della necessità, sostanzialmente da ogni meccanicismo. Se queste sono speculazioni metafisiche, nel tentativo di forzare nel quadro della nostra logica le dinamiche paradossali dell'universo, forse, prima di ambire al controllo assoluto sulla realtà, dobbiamo far nascere in noi un nuovo paradigma basato sulla convergenza fra scienza e spiritualità come unico presupposto per penetrare nella stanza dei bottoni, quel misterioso luogo da cui si materializza e si organizza tutto ciò che esiste, uno spazio accessibile con metodi empirici parallelamente ad una consapevolezza idonea ad astrarre quel mondo intelligibile nascosto dietro i veli delle apparenze.
Alessia Birri
Immagine: "Il contrasto che crea la vita", olio su tela di Vladislav Shurganov, 2008, 54 x 36 cm.
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